Se l’open-innovation va a nozze con il Terzo Settore. Il modello della nuova impresa sociale

di Redazione

Oggi, dei 70 miliardi di euro generati in ambito non-profit 50 sono “market oriented”

open innovationSe imprese, istituzioni e soggetti intermediari come incubatori e acceleratori di startup fossero a caccia di partner per arricchire i loro percorsi di open innovation potrebbero guardare anche al terzo settore, soprattutto se in gioco ci sono progetti che mirano in modo esplicito a generare un impatto sociale positivo e duraturo.

Il terzo settore, infatti, è una realtà ampia e dinamica, oggetto di una recente riforma legislativa che ha avuto il merito di definire con chiarezza i suoi elementi identitari ma, al tempo stesso, a dilatare i settori di attività e a diversificare i modelli di intervento. Il risultato è che intorno alla missione di perseguire “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività d’interesse generale” si riorganizza l’azione di diversi soggetti giuridici – associazioni culturali e ricreative, organizzazioni di volontariato sociale, fondazioni, imprese sociali – che operano in diversi settori: dai servizi sociali alla cultura, dall’ambiente all’educazione, dal turismo alla rigenerazione urbana.

La riforma ha innescato un processo di capacity building che sta già cambiando la faccia del settore: l’adesione alle nuove norme richiede infatti di rifocalizzare la mission, di scegliere i settori di attività, di strutturare meglio la governance, di rafforzare i processi di produzione e la gestione dei flussi economici, di rendicontare anche in senso sociale l’utilizzo delle risorse. Il risultato sarà probabilmente un insieme meno frammentato delle oltre 350mila organizzazioni nonprofit attualmente censite dall’Istat, con la progressiva affermazione di big players non solo per crescita dimensionale attraverso fusioni e accorpamenti ma anche innovando i modelli di rete finalizzati non solo alla rappresentanza ma anche a consolidare filiere e piattaforme territoriali. In sintesi, un comparto più strutturato e probabilmente più orientato a ricercare e gestire alleanze con attori diversi, anche su percorsi di innovazione aperta.

Tra i tanti punti di vista da cui guardare al terzo settore in questa fase di transizione ve n’è uno di particolare interesse ovvero l’andamento della componente market. In pratica quante e quali organizzazioni di terzo settore ricavano una parte significativa (fissata per convezione al 50% delle risorse economiche generate) da scambi di mercato e non da donazioni. Si tratta, infatti, di una variabile che storicamente i ricercatori utilizzano per approssimare una importante tendenza di questi soggetti verso l’imprenditorialità. Si tratta di una innovazione di processo rilevante considerando che nella maggior parte dei casi sono organizzazioni nate non per produrre ma per redistribuire risorse apportate da soggetti privati e pubblici. Eppure, negli ultimi anni e per ragioni molto diverse – presenza di bisogni insoddisfatti, crescita di una domanda privata pagante, outsourcing dell’ente pubblico, superamento degli approcci risarcitori della responsabilità sociale d’impresa – qualcosa è cambiato. E continua a cambiare.

Un numero sempre maggiore di soggetti sociali ha dato vita a un inedito modello d’impresa – l’impresa sociale – e molti altri hanno il potenziale per farlo.

La legge di riforma, infatti, prevede la possibilità che gli enti di terzo settore possano scegliere anche la qualifica di impresa sociale adottando, a tal fine, una pluralità di assetti organizzativi e gestionali – anche a partire da società commerciali: srl, snc, spa, ecc. – mantenendo però le stesse finalità e gli stessi vincoli – seppur attenuati – rispetto alla distribuzione degli utili. Già oggi esistono quindi 15.000 imprese sociali concentrare soprattutto nei settori del welfare, ma secondo l’Istat esistono ulteriori 95 mila organizzazioni (quasi un terzo del totale) che ricavano la maggior parte delle loro risorse da scambi di mercato e in settori diversi rispetto alla protezione sociale come ad esempio la produzione e la tutela di beni culturali. Il risultato di questa grande trasformazione interna è che oggi dei 70 miliardi di euro generati in ambito non-profit 50 sono “market oriented” e un ammontare simile deriva da rapporti con soggetti privati (sia di mercato che donativi).

Non male per un settore solitamente rappresentato come dipendente da enti pubblici e da contributi una tantum.

In realtà il terzo settore italiano è sempre più in grado di dar vita a processi di generazione del valore stabili e continuativi grazie a transazioni che sempre più intermediano valore economico e sociale. Una buona notizia anche in ottica open innovation a patto però che il terzo settore non venga usato come “ciliegina sulla torta” per mero scopo segnaletico rispetto alla valenza sociale dell’innovazione, ma diventi componente costitutiva e parte integrante dell’amalgama. Dentro all’imprenditorialità sociale risiedono infatti ingredienti e conoscenze preziose per innescare nuovi percorsi d’innovazione “community based”. In un futuro non troppo lontano saranno probabilmente gli stessi enti di terzo settore a richiedere e gestire questo ruolo, in quanto orientati anch’essi a investire sulla loro crescita e sulla capacità di scalare la produzione di beni e servizi di utilità sociale non per seguire un qualche imperativo a innovare ma “semplicemente” perché chiamati a rispondere a sfide sociali e ambientali sempre più rilevanti.

(Fonte: Open Innovation – Fonte foto: Secondo Welfare)