Cinque ragioni per cui soprattutto ora il Paese ha bisogno del Terzo settore

di Redazione

Partecipare alla governance della crisi, definire una strategia della cura, nuovi servizi per gli anziani, valorizzare i legami delle comunità ferite, il civismo e la cittadinanza attiva

terzo settore È in atto uno sforzo impressionante e per certi versi commovente nel nostro paese. Uno sforzo che grava in gran parte su tutto il mondo sanitario e della protezione civile, una prova di coraggio e dedizione di cui dobbiamo essere grati e che ci dovrebbe far apprezzare l’inestimabile valore di avere un servizio sanitario universale. In questi giorni in cui la curva dei contagi “sembra iniziare a cambiare verso” diventa decisivo avviare una nuova fase “decentrata e più inclusiva” grazie a un più convinto e attivo apporto della comunità e di tutte le organizzazioni che rappresentano il variegato mondo del terzo settore. Sono almeno cinque gli ambiti su cui occorre agire e su cui la cooperazione sociale, il volontariato e la cittadinanza attiva possono giocare un ruolo per certi versi non surrogabile da nessun altro.

Il primo ha a che fare con la partecipazione alla “governance di questa crisi”. È urgente includere nella cabina di regia di questa emergenza esperti e rappresentanti del mondo dei servizi socioassistenziali e del volontariato. In questi momenti è decisiva l’autorità e l’autorevolezza del “Governo”, ma le decisioni più efficaci in questa fase necessitano di una “governance” ossia di una pluralità di soggetti capaci di dilatare il perimetro del pubblico e aumentare la diffusione e l’efficacia dell’intervento. Basti pensare alle 300.000 persone vulnerabili, oggi ospitate nelle oltre 7.000 strutture sociosanitarie, oppure ai servizi domiciliari rivolti ai disabili: queste situazioni necessitano quanto prima dispositivi di sicurezza e di una strategia “preventiva, ad hoc” per non far saltare una rete vitale del nostro welfare.

Il secondo ambito ha che fare con la “strategia della cura”. In un recente articolo pubblicato sulla rivista “New England Journal of Mecidine” alcuni medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo nel descrivere il proprio modello d’intervento hanno evidenziato la necessità di passare da un modello “patient cetered care” ossia costruito dentro il perimetro ospedaliero intorno “al bisogno del singolo paziente”, ad un modello “community centered care” ossia capace di costruire soluzioni anche a domicilio, includendo expertise e soggetti non strettamente connessi al mondo sanitario. Un modello distribuito e non centralizzato che attraverso l’apporto dell’impresa sociale potrebbe permettere la costruzione di una rete socioassistenziale capace di integrare l’azione di cura ospedaliera, alleggerendola e riducendo il pericolo (oggi realtà) di trasformare i luoghi di cura in luoghi di contagio (oltre 2000 sono gli infermieri ed i medici contagiati).

Il terzo ambito riguarda il supporto e l’aiuto agli anziani. Oltre ai malati perché colpiti da virus, c’è una platea immensa di persone isolate che stanno vivendo situazioni per loro prima inimmaginabili (il 38% di chi ha più di 74 anni, vive da solo). Una quarantena relazionale che non può essere trascurata: dal come rispondere ai bisogni della propria quotidianità, a come affrontare le necessità connesse ai problemi di salute. Per non parlare poi del “dopo” emergenza: gli over 65 dovranno godere di una assoluta rete di protezione e di servizi per non esporli a rischi (garantirgli la spesa potrebbe per loro essere parametrato ad un servizio essenziale). Su questo fin da subito il volontariato e i cittadini si son mossi autonomamente e intenzionalmente. Questa spinta iniziale è oggi “in parte” inclusa dentro una regia “pubblica” di molti Comuni, ma come detto, bisogna aumentare questa integrazione per iniziare ad organizzare nuovi servizi che saranno vitali nella “fase di transizione”.

Il quarto ambito ha a che fare con il valore dei legami per le comunità ferite. Non possiamo non guardare quello che sta succedendo e consolarci appena con lo slogan #andràtuttobene. C’è una ferita enorme dentro la nostra società e nella nostra economia. I morti sono tanti, tante sono le famiglie colpite dal lutto e dall’impossibilità di accompagnare i propri cari, tante sono le comunità toccate dalla scomparsa di persone importanti per la loro “vita in comune”; è una ferita questa che necessita di un’azione non appena consolatoria. Non saranno le comunità a “saturare queste ferite”, ma senza legami e senza la ripresa di una socialità autentica che viva la positività del reale, diventerà difficile ri-alimentare la speranza in molti luoghi.

Il quinto ambito ha che fare con il ruolo del civismo e della cittadinanza attiva. Le esperienze di Taiwan e della Korea ci raccontano di come uno dei “antidoti più efficaci” siano state le azioni dal basso, di civismo e democrazia collaborativa attivate attraverso piattaforme e applicazioni digitali dedicate. Meccanismi di tracciamento anonimo, di geo-localizzazione delle aree a più alto rischio, di supporto “fra pari” sono risultate in molti paesi indispensabili per costruire una strategia efficacie ma soprattutto per attivare i cittadini, che certo hanno come prima responsabilità quella di stare in casa, ma che posso anche svolgere (grazie alla tecnologia) un ruolo “attivo” nella prevenzione e gestione del rischio. I 5,5 milioni di volontari e le 365.000 organizzazioni non profit distribuite nel territorio nazionale (anche nelle aree interne) sono una infrastruttura preziosissima per abilitare attraverso il digitale soluzioni collettive utili al bene comune.

La necessità di attivare il ruolo “Terzo” della comunità da parte della politica su questi cinque vettori è una priorità, un’esigenza imprescindibile per non cadere anche in una “recessione sociale”. La politica è chiamata a dare segnali concreti (risorse e soluzioni mirate) al mondo del terzo settore, ri-allineando così la propria strategia attraverso il potenziamento delle azioni di cittadini e istituzioni orientate all’interesse generale. Rimane però un punto che è tutto sulle spalle dei soggetti del Terzo Settore (oggi in parte in prima linea a svolgere una funzione pubblica oppure totalmente bloccati nel loro agire). In una società che non ci chiede appena di “coprirci dal rischio” ma di attraversarlo e viverlo, non è più rinviabile la creazione di nuova generazione di servizi che non separino la vita reale e relazioni, dalla dimensione digitale e dai contatti. Le innumerevoli esperienze di questi giorni, le “call” promosse da Governo, da Fondazioni e centri di ricerca ci dicono che è necessario ricombinare la tecnologia e l’ingaggio della conoscenza con la cura. I servi sociali, le soluzioni comunitarie, le piattaforme che in queste ore emergono dal basso, devono diventare l’area di ricerca e sviluppo più importante su cui investire nei prossimi mesi, anni. È una prospettiva che richiede l’apertura a nuovi mondi, nuove figure, nuovi partner e soprattutto a coloro che vedono nel futuro uno spazio aperto su cui costruire. Occorre potenziare tutta la nostra intelligenza collettiva e tutta la nostra “voglia di Bene” per ripartire. Una ripartenza che non va più costruita con una visione “backward looking” ossia con lo sguardo rivolto al passato, bensì con una prospettiva “forward looking” ossia agendo insieme per un cambiamento desiderato.

(Fonte: Corriere Buone Notizie – Fonte foto: L’Azione)