Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud: "Il Meridione può ripartire attraverso il terzo settore e la cultura del bene comune"

di Redazione

Nell'intervista, riportata da Senza Filtro, Borgomeo spiega perché il Terzo settore potrebbe essere un volano per la ripartenza. 

Equivoco Sud 34Carlo Borgomeo

Presidente Borgomeo, lei ha molto a cuore il concetto di capitale sociale. Sostenerlo e incentivarlo è una forma di investimento o di donazione?

Guardi, è una domanda molto importante perché coglie uno degli aspetti più rilevanti del mondo della filantropia, del terzo settore e del volontariato. Indubbiamente veniamo da una tradizione in cui la donazione, che può avere motivazioni diverse, è un atto di pura solidarietà. C’è la cultura cattolica del dono e la cultura per la quale bisogna donare risorse o donare se stessi per superare delle disuguaglianze inaccettabili, e tutto questo appartiene alla dimensione della filantropia, che è un concetto molto bello, ma limitarsi a questo oggi è troppo poco. Oggi donare o donarsi in attività che avremmo definito di pura solidarietà, come l’accompagnamento di soggetti fragili, anziani non autosufficienti, bambini in povertà educativa, famiglie di detenuti, eccetera, hanno in sé un valore oggettivo di rafforzamento della cittadinanza e della comunità. Questo processo un economista lo chiamerebbe di “rafforzamento del capitale sociale”. E il capitale sociale – grazie a Dio molte persone ed economisti se ne stanno convincendo, ma ahimè ancora non i politici – è la premessa per lo sviluppo. Quindi, rispetto alla sua domanda, si tratta di un investimento, anche se tecnicamente non è tale, perché l’investimento presume un rendimento, un ritorno economico; qui c’è un ritorno socioeconomico complessivo che è evidente.

Ne è convinto?

Di questo io sono molto convinto, forse perché lavoro quasi esclusivamente al Sud, dove ci sono territori in cui questa equazione è assolutamente evidente. Ci sono territori nei quali si vede che la questione non è la povertà, che è una conseguenza di un disagio sociale profondo, ma l’assenza di una cultura del bene comune. Bisogna passare, e utilizzo un termine che può apparire forte, dalla filantropia al cambiamento.

Gli ultimi come una risorsa, quindi.

Guardi, per confermare e per rendere esplicito quello che penso utilizzo sempre un verso del Vangelo di Matteo: “Non avete mai letto nelle Scritture: la pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo”. Le pietre di scarto – trasportandole nel sociale – rappresentano gli ultimi, i fragili, quelli che non servono a niente e che vengono appunto scartati. La filantropia se ne prende cura, le vede, si accorge che ci sono, le accoglie, le sistema e le rende un po’ più dignitose. Poi c’è – e qui viene in soccorso il Vangelo – chi dice che le pietre di scarto diventeranno le pietre angolari sulle quali si costruisce la casa. Questo è il passaggio. E guardi che su questa cosa, che può apparire demagogica, velleitaria o astratta, io potrei citare decine di casi in cui lo abbiamo visto. Abbiamo accompagnato iniziative che sono partite esclusivamente con un’emozione e si sono trasformate in operazioni imprenditoriali non profit capaci di stravolgere un territorio.

Quindi la società va costruita sulle pietre di scarto. 

Anche sulle pietre di scarto. Invece la nostra cultura ci spinge a sostenere a tutti i costi la crescita, e se c’è crescita servono le risorse per compensare gli squilibri che inevitabilmente vengono generati. Questo è il vecchio welfare risarcitorio novecentesco: un sistema che ha funzionato, sia chiaro, ma non più sufficiente. Bisogna, per certi versi, addirittura capovolgerlo. In molte situazioni si parte dal bisogno. Quindi, tornando alla sua domanda iniziale, la risposta è secca: la donazione è e deve essere un investimento.

Riprendendo anche la motivazione del premio Diana, mi ha colpito la scelta di utilizzare il doppio termine: sviluppo ed evoluzione. Giocando con le parole, secondo lei c’è una differenza sostanziale tra questi due termini?

Un’evoluzione positiva è un processo che porta sviluppo. Ma questa mia risposta è figlia obbligata del ragionamento che ho fatto prima: lo sviluppo è una dimensione un po’ più vasta della crescita, e quindi la include. Non c’è un bivio in cui uno sceglie se insistere sullo sviluppo oppure se accompagnare l’evoluzione, no; sono esattamente sulla stessa strada. Le cito Giorgio Ceriani Sebregondi, un sociologo economista che lavorava con Saraceno alla Svimez in piena rivoluzione post-bellica, che disse una frase perentoria e bellissima: “Per lo sviluppo ripartire dal sociale, soprattutto al Sud”. E lui non lavorava in una confraternita di beneficenza, lui lavorava alla Svimez, un istituto che si occupava di sviluppo.

Lei ha detto guerra e io gioco con le parole. La pandemia è paragonabile alla guerra, secondo lei? E il terzo settore che ruolo assume nel “post conflitto”?

Guerra e pandemia sono concetti assimilabili, certo, ma la pandemia per moltissimi versi è meglio. Io come tutti sono a casa e non aspetto che arrivi una bomba. Anche il volume dei morti, pur se altissimo, è imparagonabile. La vera differenza secondo me è però nella ripresa, perché abbiamo capito che non ci sarà un giorno X e poi un giorno X più uno in cui tutto sarà diverso. Ci sarà un’uscita a coda lunga, e questo è nuovo. Ci potremmo auspicare che – ma questa è una questione del tutto opinabile e sulla quale le previsioni si contrappongono – scatti quel desiderio che è scattato nel dopoguerra. Uno spirito fortissimo di solidarietà e di voglia di riprendere, un fenomeno straordinario. Oppure, come sosteneva Don Virginio Colmegna stamattina: “Ripartiremo senza aver capito niente e con il peggiore approccio al consumismo che ci porterà a recuperare quello che abbiamo perso”. Lo scenario è senza dubbio difficile, ed è per questo motivo che nei giorni scorsi ho fatto una proposta un po’ azzardata, dicendo che per la ricostruzione è importantissimo non indebolire il terzo settore. E non è un fatto di amicizie o di simpatia per queste persone che fanno del bene. No: è un giudizio piuttosto freddo basato sul fatto che se non c’è coesione sociale, una dimensione comunitaria forte e una spiccata solidarietà tra cittadini, la ripresa può prendere una brutta piega.

Il significato di Sud dal dopoguerra a oggi, visto che cronologicamente siamo partiti da lì, com’è cambiato?

In settant’anni la questione non è stata risolta e settant’anni sono tantissimi. Questo dimostra che non si è sbagliato un intervento o una legge, ma qualcosa in più. Poi se uno si interroga sul perché si possono dare molte risposte, però nessuna di queste mi convince del tutto.

Quali sono?

La prima risposta è sostenere che la colpa sia stata del Nord (la responsabilità quindi è dei cattivi che non sono stati abbastanza solidali), oppure che i soldi siano stati sprecati (tipicamente: i meridionali non sono capaci). E a questo proposito ricordo sempre una bellissima pagina di Benedetto Croce, che nel 1920 diceva: questo è un dibattito inconcludente e non mi sento di dire che è tutta colpa degli altri. La seconda invece assegna le responsabilità alla classe dirigente del Sud: pessima. Questo è abbastanza vero, ma non del tutto convincente. Non è che siano stati tutti incapaci, ma soprattutto, anche la classe dirigente nazionale non si è contraddistinta per spiccate doti di eccezionalità. Poi c’è la spiegazione che io rifiuto alla radice, che è quella antropologica. Spesso si fa riferimento alla mentalità dei meridionali e scatta l’interpretazione. Io la chiamo la motivazione rifugio, perché si usa quando non si sa cosa dire. La chiamo anche la mentalità del razzista, perché sarebbe curioso sapere a quale latitudine questa mentalità cambia e perché i meridionali che vanno altrove non vengano segnalati per una mentalità inadeguata.

Quindi dov’è la verità?

Secondo me c’è stata un’offerta culturale, politica e sullo sviluppo assolutamente inadeguata. Se si fosse insistito di più sul capitale sociale e sulla scuola, invece di trasportare a tutti i costi fabbriche che il territorio non poteva ospitare, parleremmo di una situazione radicalmente diversa. I politici le volevano, le grandi industrie, e un po’ di gente è stata assunta, ma i territori erano e sono rimasti estranei. Spesso si dice “cattedrali nel deserto”; bisognerebbe parlare anche del deserto nelle cattedrali. Questa secondo me è la vera spiegazione, e cioè che non si è tenuto conto del sociale. Le faccio un esempio: se io le dicessi che in Calabria ci sono due posti di asilo nido ogni cento bambini, lei – rattristato – risponderebbe che è naturale, che essendo una regione povera mancano i soldi per gli asili nido. In realtà bisogna abituarsi a pensare che è esattamente il contrario: la Calabria è povera perché non ci sono gli asili nido. Questo è il tema. È un esempio un po’ forzato, ma la sostanza è corretta, perché nel Meridione abbiamo assistito per anni a trasferimenti industriali forti che hanno rialimentato i consumi e la produzione, hanno ridotto il divario del Pil, ma erano effetti di breve durata, senza nessun progetto strutturale vero. Il disegno strategico è stato sbagliato, e purtroppo la responsabilità è di chi ha immaginato che trasportare grandi stabilimenti industriali avrebbe indotto sviluppo. La storia ci sta dimostrando che non è così.

Quindi parliamo di una visione sbagliata o di un’assenza di visione?

Parliamo di una visione sbagliata.

Quella di innestare a tutti i costi delle strutture industriali.

Sì, una visione indotta dalla esigenza emergenziale di produrre posti di lavoro. Facciamo un esempio: se a un tavolo di lavoro sullo sviluppo pugliese, dove si discute di modernizzare l’agricoltura, sostenere le PMI e fare importanti interventi di ristrutturazione, si presenta un politico la cui unica missione è quella di far assumere diciottomila persone all’Italsider, c’è poco da discutere. Costui uscirà vincitore dal confronto, ma la sua rimarrà una visione di sviluppo ridotta e forzata. Questa è la spiegazione del perché Lecce, che ad esempio non ha conosciuto questi fenomeni, è più avanti rispetto a Taranto o Brindisi, dove la comunità per anni è stata costretta a far coincidere il percorso di sviluppo con l’arrivo di grandi aziende, tralasciando tutto il resto.

Guardi io sono ciociaro, quindi un Centro-Sud, e oggi stiamo pagando il prezzo di politiche non diverse da quelle che ha descritto. Un’industrializzazione inculcata con forza dal dopoguerra e con finalità politica, che ha snaturato un territorio e ha prodotto anche dei danni ambientali non secondari, come l’inquinamento della Valle del Sacco.

Questo è il tema: a forza. Se lo stesso volume di investimenti fosse stato utilizzato per accompagnare i percorsi di sviluppo locale più radicati e più partecipati, i risultati sarebbero stati di lungo termine. Invece si è preferito puntare tutto sull’industrializzazione, che da punto di vista del reddito ha portato qualche beneficio, ma da un punto di vista dello sviluppo, inteso come equilibrato e duraturo, non è stata un gran vantaggio.

I dati quindi possono mentire, se contestualizzati nel breve periodo. 

Esatto, è sul lungo termine che si pagano le conseguenze.

Perché allora non si riesce a dare un respiro più ampio alla contrapposizione Nord-Sud e tutto viene ridotto al fattore economico? 

Perché siamo figli di quella cultura. Io credo che bisognerebbe incominciare a raccontare il divario con i servizi sociali e con i diritti negati. La logica dello sviluppo ci ha portato a voler a tutti i costi assicurare la crescita, e abbiamo preso quella variabile come unità di misura universale. Io invece penso che non dipenda tutto da quello, ma che sarebbe necessario misurare altro.

Quell’altro che esiste ed è bello, a cui ha fatto riferimento proprio all’inizio della chiacchierata, sa raccontarsi bene? Oppure è sempre vittima di un racconto un po’ stereotipato, quando si parla di Meridione?

Purtroppo è vittima di un meccanismo stereotipato. Al Sud c’è una classe dirigente, non solo politica, che è più abituata a denunciare i problemi piuttosto che a enfatizzare le potenzialità. Questo è importantissimo. Le carriere, ripeto, politiche e non solo, si fanno ancora se si è bravi a raccontare i guai e a chiedere che altri li risolvano, che altre parti del Paese se ne occupino. E questo è ancora abbastanza presente, anche se per fortuna sta cambiando. Il terzo settore, che è quello che mi vede coinvolto in prima persona, è anche in grado di raccontarsi bene, ma non ha ancora fatto il salto che io chiamo esplicitamente politico, e cioè capire che il lavoro ha una valenza complessiva, e non è solo un volersi bene o un desiderio di aiutare. Ecco, può sembrare cinico dirlo, ma il problema non sono gli attori del terzo settore che sono buoni di cuore; questo ci interessa fino a un certo punto. Il punto è che sono leve di cambiamento. Questo è il tema sul quale ragionare.

Spesso si sente dire “trasformiamo una crisi in un’opportunità”. Crede che si possa fare sul serio? 

Sì, si può fare sul serio, basta decidere. Per esempio pensiamo alla sanità. È chiaro che se si prende spunto da quello che abbiamo imparato si può migliorare fortemente.

A proposito di ripartenze a rischio populismo, come appunto nella sanità. Visto che ha parlato del salto politico per il terzo settore, quando si tratta di sostenere progetti come si fa a scegliere dribblando il puro formalismo e le dinamiche esclusive dei bandi, conciliando il tutto con l’obbligo di trasparenza? 

La domanda è molto complicata e la risposta è sufficientemente complessa. Cominciamo col fare un’affermazione di principio: il formalismo rappresenta l’incapacità di scegliere, ed è un indice esplicito della debolezza della politica. Molte volte abbiamo l’impressione che la politica rispetto ai problemi faccia elenchi e non faccia scelte. Quindi hanno tutti ragione, tutti chiedono e la politica non sceglie. Basta leggere un qualunque programma elettorale: c’è dentro tutto, perché la politica si accontenta di dire ai soggetti “io ti ho presente”. Invece il bello è quando sceglie, quando ha presente tutti ma decide che una cosa è più importante dell’altra. È un meccanismo difficile perché si gioca sul consenso, però questa è la politica. Se non si prendono decisioni si scende e si va incontro al comando dei burocrati, che non hanno bisogno del consenso ma di tranquillità. Questa è una prima questione. La seconda questione ha a che vedere con il lavoro che facciamo noi. La Fondazione eroga delle risorse, e cerchiamo di creare un equilibrio che ci permetta di non buttare via soldi, ma che al contempo eviti che la selezione venga fatta in base a formalismi, cosa pericolosissima soprattutto nel terzo settore. Io detesto i progettisti professionisti.

Che cosa chiede quindi?

Chiedo che il terzo settore abbia professionalità, non professionismo. Non servono soggetti bravi a scrivere i progetti che poi non abbiano a cuore il contenuto dell’iniziativa. La battaglia è dunque aperta e si supera in due modi: il primo è spostando progressivamente i criteri di scelta sul soggetto piuttosto che sul progetto. Il secondo è redigere i bandi lasciando molto spazio all’inventiva, alla rappresentazione dei bisogni piuttosto che con degli schemi preordinati, nei quali un bravo progettista riesce a infilarsi perfettamente. Un po’ di regole ci vogliono, naturalmente. Ma la grande sfida è evitare che le regole oscurino la sostanza. È una tensione continua tra l’esigenza di trasparenza e di rispetto di alcune regole e l’esigenza di non farsi travolgere da un sistema di formalità.

Con l’esperienza che ha maturato all’interno della Fondazione, se dovesse dimostrare che l’Italia può farcela, quale esempio che ha toccato con mano mi citerebbe?

Guardi, a me dispiace sempre fare delle selezioni, però la domanda è troppo bella. Ne cito due. La prima è la storia di un parroco del rione Sanità (uno dei più tossici del capoluogo campano), che ha riaperto dopo anni le catacombe del secondo secolo di Napoli. Lo ha fatto dando vita a una cooperativa che oggi dà lavoro a 40 ragazzi, ex fragili e pietre di scarto, grazie al comodato d’uso gratuito che la chiesa ha concesso loro e ai 380.000 euro che abbiamo dato come contributo. Oggi ospitano 160.000 visitatori l’anno e il quartiere è stato stravolto profondamente. Questo non lo dico solo io, ma lo conferma anche una ricerca dell’Università di Napoli che dimostra come il rione Sanità sia cambiato in termini sociali e di reddito. Fantastico. Tenga conto che processi così hanno anche un effetto straordinario per le questioni relative alla lotta alla camorra. Perché un’operazione di polizia, oppure un esterno che fa investimenti, non generano nessun cambiamento. Se invece vengono spaccate le famiglie, distrutte nel dibattito e poi ricompattate, l’effetto è quello di una bomba atomica. Inizialmente, quando il progetto stava partendo, tanti di quei ragazzi quando tornavano a casa venivano derisi, accusati di “perdere tempo appresso a un prete”. Quando la cooperativa ha iniziato con le prime assunzioni a tempo indeterminato il quartiere è cambiato.
È accaduto un qualcosa di pazzesco e si è acquistata credibilità. Ma tutto è avvenuto dentro le case, con il padre – forse – mezzo camorrista e la tensione rispetto al desiderio del figlio di provare a cambiare. Così si cambiano le cose. E se si è riusciti lì, si può riuscire ovunque. Un secondo esempio è nella Locride, in cui una cooperativa (ancora una volta) si occupava di servizi socio-sanitari, e a un certo punto ha iniziato a occuparsi di altro. Oggi centocinquanta persone sono contrattualizzate e fanno raccolta di arance, vengono pagate quattro volte quello che le pagherebbe la ‘ndrangheta. Hanno mediamente un attentato all’anno, hanno aperto un ristorante solidale, un ostello in un bene confiscato, e nonostante le mille difficoltà vanno avanti. Quindi, se nei casi estremi il meccanismo funziona, non si può che essere ottimisti. Non stupidamente ottimisti: si può fare.

L’ultima domanda che voglio farle riguarda l’importanza delle strutture intermedie, come le parrocchie ad esempio. Il sacerdote del rione Sanità mi sembra una figura chiave del suo racconto. Mi chiedevo se può rappresentare un problema la capacità manageriale di tanti soggetti dal grande cuore ma con poca sensibilità imprenditoriale.

Assolutamente sì. La questione è centrale. Io prima le ho fatto una battuta. Ho detto: voglio professionalità e non professionismo. Eccoci, ci siamo. Non basta essere generosi, bisogna saper fare impresa, e questo è un tema culturale importantissimo sul quale, devo ammettere, si stanno facendo passi in avanti. Se anni fa si citava il concetto di impresa sociale, era necessario impiegare mezz’ora per convincere l’interlocutore che non era un ossimoro. Adesso l’idea di impresa sociale è penetrata. Se io cinque anni fa parlavo all’organizzazione del terzo settore e ponevo loro la questione finanziaria, venivo tacciato di essermi venduto al nemico. Il punto è che, anche se ho una piccola associazione di volontariato che fa girare duecentomila euro all’anno, devo capire che cos’è la finanza.

Ha un esempio concreto anche di questo?

Tra le esperienze che le stavo citando ne abbiamo una straordinaria in Sardegna. Un ex manager di altissimo livello, a un certo punto della sua vita, ha deciso di prendersi un anno sabbatico, trasferirsi temporaneamente lì, e dedicarlo ad accogliere i bambini vittime di maltrattamenti. L’anno sabbatico è diventato la sua vita. Ha lasciato tutto, e oggi, con moglie e figli al seguito, fa solo questo, combinando l’efficienza all’efficacia, senza nulla togliere ai valori fondanti. La sua organizzazione si chiama Fondazione Domus de Luna e fa un lavoro strepitoso. La sua esperienza certifica la validità della sua domanda. Se uno come lui si impegna nel terzo settore è inarrestabile, perché unisce le motivazioni alle competenze.

 

( Fonte articolo: Informazione senza filtro - fonte foto: Calabriaon Web )