Sakineh condannata all’impiccagione. Perché tanto accanimento su questa donna?

di Monica Scotti

Nella favola di Aladino (dall’arabo ‘alā al-din, “nobiltà della religione”) strofinando una lampada magica l’eroe otteneva la realizzazione dei propri desideri[1]. Esistono numerosi racconti che si ispirano alle sue avventure e che sollevano interrogativi inquietanti sulla natura di ciò che si riceve grazie a un semplice desiderio. Come non domandarsi se l’eventualità di raggiungere un obiettivo può ritorcersi in seguito contro chi sognava di tagliare proprio quel traguardo? Sembra sia successo questo con la vicenda Sakineh. (Monica Scotti)

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La comunità internazionale si è mobilitata chiedendo a gran voce che la donna, rinchiusa nelle carceri di Tabriz da ormai 5 anni, non fosse lapidata per il reato di adulterio; ha dunque “espresso un desiderio”, ottenendo, infine, ciò che voleva: far sospendere la pena.

Peccato però che alla vedova iraniana sia stata risparmiata la lapidazione soltanto per “consentirle” di morire impiccata, essendo stata riconosciuta dai giudici colpevole per il reato di omicidio, secondo quanto reso noto dal quotidiano Teheran Times nei giorni scorsi.

Il processo non è finito, si può ancora sperare, ma il futuro di questa donna, diventata simbolo di tutte le donne iraniane e finita suo malgrado sul tavolo instabile della diplomazia internazionale accanto a questioni come il nucleare, la guerra in Irāq e l’approvvigionamento petrolifero, appare più cupo e incerto che mai.

Il sistema penale iraniano si ispira al diritto classico di matrice religiosa, la cosiddetta sharī‘a, o legge islamica[2], che è basata su fonti riconosciute come prodotto di origine divina, rivelate (il Corano) e ispirate (la sunna[3]). L’elaborazione di tali fonti è detta fiqh, “giurisprudenza” o “diritto” in senso stretto, e costituisce un prodotto umano frutto dello sforzo interpretativo e compilativo dei giurisperiti di epoca medievale. La sistematizzazione di un sistema giuridico ha inizio, di fatto, già nell’VIII secolo/I secolo dell’hegira[4]. Questa premessa è indispensabile per comprendere il doppio statuto del diritto islamico, al tempo stesso “divino” (quindi eterno, immutabile, perfetto) e “umano” (flessibile, addirittura perfezionabile).

Laddove nel Corano o nella sunna non sono presenti indicazioni chiare su questioni legali e/o legate alla condotta quotidiana del buon musulmano, l’uomo è dovuto intervenire a colmare le “apparenti” lacune una volta venuto a mancare il tramite diretto con Allah, ovvero il profeta Muḥammad, facendo ricorso ai principi di analogia e accordo fra i fedeli.

In ambito penale ciò è alla base della differenza di statuto, ad esempio, fra le pene ḥadd, che prevedono una punizione “fissa” perché descritta più o meno in dettaglio nel testo sacro, e pene jināyāt (letteralmente “crimini”), rivisitazione del vecchio diritto consuetudinario pagano. Le pene jināyāt, applicabili in caso di omicidio (come per la vicenda di Sakineh), ferite, danni alle persone e alle cose, rappresentano un esempio di diritto “disponibile” perché prevedono diverse opzioni per la soluzione dello stesso problema, lasciando ampio spazio alla trattativa diretta dei privati coinvolti nonché alla discrezionalità del giudice.

In caso di omicidio, infatti, il colpevole rischia l’applicazione della legge del taglione e dunque la morte[5], ma potrebbe essergli comminato solo il pagamento di una somma di denaro come risarcimento per il male fatto (il cosiddetto “prezzo del sangue”) o potrebbe addirittura non subire conseguenze per il proprio gesto ed essere perdonato dai familiari più prossimi della vittima. Pur ammettendo che Sakineh sia colpevole (cosa assai improbabile a dire il vero), i continui appelli dei figli affinché le sia risparmiata la vita sembrano spingere in questa direzione.

Nel Corano, infatti, si sprecano le esortazioni al perdono. Per quanto suoni strana a un orecchio occidentale l’idea che un crimine grave come l’omicidio possa restare impunito, mentre “delitti” come l’assunzione di bevande alcoliche e l’atto sessuale illecito, in quanto ḥadd, sono necessariamente accompagnati da gravi conseguenze, si dovrà ammettere che un simile patrimonio giuridico classico non giustifica alcune delle successive elaborazioni dottrinali più estremiste né le derive di violenza di cui si sono rese responsabili persone e governi moderni in nome della sharī‘a.

L’esistenza di una norma pluri-centenaria che porta alla morte non giustifica la sua odierna, sistematica applicazione, soprattutto se accanto a quella norma ve n’è un’altra che consente il perdono, soprattutto, dunque, se al giudice e al legislatore è data facoltà di scegliere.

Sakineh potrebbe essere salvata. Contro di lei, ancora una volta, non si scaglia l’ira di un Dio che esige vendetta, ma la volontà omicida di uomini che non avvertono la vergogna di avere fra le mani la vita preziosa di una semplice donna.  



[1] L’occasione sembra propizia per ricordare che nella raccolta de Le mille e una notte (’Alf layla wa-layla), fatta conoscere al mondo occidentale nel XVIII secolo dall’erudito francese Galland, quello che sarebbe poi diventato il protagonista del celebre cartone animato Disney, ovvero Aladino, aveva a sua disposizione non solo la lampada ma anche un anello dai magici poteri, grazie al quale poteva esprimere un numero illimitato di desideri, e non si poneva affatto il problema di restituire la libertà al “mostruoso” e potente jin che obbediva ai suoi ordini. Inoltre egli era innamorato di una bella principessa di nome Badr al-Budūr (letteralmente “luna piena delle lune piene”) e non della più nota Yasmin.

[2] Il significato letterale di sharī‘a è “strada, percorso che conduce gli animali all’abbeveratoio”, il termine ha subito un trasferimento di contenuto semantico diventando in ambito giuridico la “strada che conduce i fedeli a Dio”.

[3] Ovvero “tradizione”, costituita dall’insieme dei detti del Profeta e aneddoti che lo vedono protagonista insieme a esponenti della prima generazione dei credenti.

[4] Il termine latinizzato hegira significa “emigrazione”. Indica il calendario (di tipo lunare) a cui fanno riferimento i musulmani, che ha inizio nel 622 d.C. col trasferimento rocambolesco del profeta Muḥammad e dei primi musulmani da Mecca a Medina (allora chiamata Yathrib, ribattezzata madinatu al-nabiyy, ovvero “città del profeta”, in breve Medina -“città”, proprio in seguito a quell’episodio).

[5] La formula “occhio per occhio dente per dente” appare a noi figli del progresso e del XXI secolo come un espediente a dir poco “barbarico”, ma all’epoca costituiva l’unica risposta alla violenza e all’anarchia. A questo proposito il diritto islamico promosse un passo in avanti sulla strada della sicurezza civile, imponendo che la vendetta dei familiari della vittima riguardasse soltanto l’autore del crimine, senza ricadere sull’intero clan di quest’ultimo, per scongiurare lo scoppio di lunghe faide sanguinose.{jcomments on}

(foto: ilmessaggero.it)