Tibet: giovani voci in pericolo nel silenzio dei media

di Anna Laudati

Per una strana e forse non casuale coincidenza, i giovani europei non sono gli unici a manifestare contro quelle che ritengono scelte, leggi o decisioni sbagliate dei propri governi. Ci sono migliaia di giovani tibetani, infatti, che da mesi scendono nelle strade e protestano contro da decisione del governo cinese di imporre nelle scuole il cinese mandarino quale lingua ufficiale in quelle regioni in cui si parla prevalentemente tibetano. (Chiara Matteazzi

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“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, si legge in un passo del Tractatus logico-philosophicus del celebre filosofo Ludwing Wittgenstein. Sembra una affermazione banale, quasi scontata, ma la sua importanza è fondamentale e trova riscontro in ogni momento della nostra vita quotidiana. Quello che non riusciamo ad esprimere e a rendere con le parole è destinato a non raggiungere l’altro e a volte persino a perdersi nei meandri della nostra mente, risucchiato nell’oscurità di un oblio impietoso.  

Ma c’è qualcosa di ancor peggiore rispetto al non riuscire ad esprimere qualcosa, ed è il non poter dire qualcosa. Provate a immaginare per un solo secondo cosa debba significare non avere il diritto di parlare, nel luogo in cui si è nati, la propria lingua, o comunque non poterla praticare nei luoghi istituzionalizzati. Ciascuno di noi associa inevitabilmente la propria persona ad una lingua specifica, che diventa mezzo necessario per dar corpo e peso al proprio pensiero. Questo processo di associazione passa attraverso pratiche culturali e sociali peculiari di ogni popolo ed è sancito appunto dal tipo di lingua che è esso ha scelto, sviluppato e modellato sulla base della propria storia e delle proprie tradizioni nel corso degli anni. 

Privare un popolo della propria lingua significa privare i singoli al diritto fondamentale e inviolabile di espressione, di manifestazione del proprio pensiero e delle proprie idee. La cancellazione o, nella migliore delle ipotesi, il declassamento di una lingua a favore di un’altra è stato uno degli aspetti più brutali di qualsiasi colonialismo, con conseguenze disastrose. Vietare l’uso di una lingua nelle scuole, negli uffici, e in generale in tutti gli ambienti “ufficiali” di un paese, in favore di una lingua altra, straniera ed straniante, incapace per definizione di trasmettere la cultura del posto, significa condannare un popolo al silenzio, spezzare il legame tra l’io e l’altro, reso possibile solo (o comunque in grandissima parte) dalla comunicazione.  

La storia coloniale europea ha lasciato un segno indelebile, e non solo nei Paesi colonizzati ma anche nell’Europa stessa. Sono molti oggi gli scrittori e gli artisti che guardano a quel periodo e che, anche grazie all’intensificarsi del fenomeno migratorio che pone inevitabilmente di fronte a certe realtà e a certi interrogativi, guardano a quel periodo con nuovi occhi, tentando di sanare ferite spesso ancora aperte.

Dando voce a coloro ai quali è stata tolta nel passato, una sorta di riscatto (destinato a rimanere sempre e comunque parziale), appare possibile. Ma c’è anche un altro modo, a mio avviso, per ricucire quelle ferite, ed è dimostrare di avere imparato dalla storia, anche quando si vorrebbe dimenticare. È con queste premesse che dobbiamo guardare con occhi esperti alla realtà, che velata da una patina di diplomazia e strette di mano cela spesso repressioni, violenze e ingiustizie. Per una strana e forse non casuale coincidenza, i giovani europei non sono gli unici a manifestare contro quelle che ritengono scelte, leggi o decisioni sbagliate dei propri governi.

Ci sono migliaia di giovani tibetani, infatti, che da mesi scendono nelle strade e protestano contro la decisione del governo cinese di imporre nelle scuole il cinese mandarino quale lingua ufficiale in quelle regioni in cui si parla prevalentemente tibetano. I libri di testo e le ore di insegnamento nella lingua locale sono aboliti. Dopo la chiusura dei monasteri, lo sradicamento di comunità intere e il tentativo efferato di imporre l’ateismo nella patria del buddismo, la Cina gioca ora la sua ultima, terribile, carta, nella strada che mira dritta alla cancellazione del popolo tibetano. A triste riprova di quanto la comunicazione sia importante, non essendo la causa tibetana tra gli argomenti prediletti dai media, si tende troppo spesso a dimenticarla, a lasciarla in un cantuccio rispolverato solo di tanto in tanto, nell’ipocrito tentativo di ripulire le nostre coscienze.

Dopo le olimpiadi del 2008, infatti, il Tibet è presto sparito dai giornali e telegiornali occidentali, e mentre noi dimenticavamo, Pechino, approfittando del silenzio mediatico, portava avanti il suo piano. Risale al gennaio di quest’anno la decisione ufficiale cinese di mantenere il pugno duro nei confronti del Tibet, insieme a quella di modernizzare la regione (decisione che comporterà uno stravolgimento ambientale e culturale di dimensioni incalcolabili). Il 4 novembre scorso, quattro organizzazioni di esuli hanno inviato una lettera aperta al presidente Obama, affidandogli una richiesta di aiuto disperata. “La lingua tibetana è il fondamento della nostra ricca cultura”, si legge in un estratto della lettera, “il governo cinese, negando ai giovani l’opportunità di imparare la loro lingua, sta cercando di sradicare, in maniera sistematica la cultura e l’identità tibetane”. 

È un appello che non può rimanere inascoltato. Abbiamo la possibilità, ora e non col senno del poi, di urlare il nostro no. È sufficiente parlarne. Abbiamo il dovere di parlarne. Con la nostra voce possiamo, o meglio dobbiamo, dare voce a chi corre seriamente il rischio di perdere la propria.

(foto: libertiamo.it)