Laurea. Quale sarà il suo "valore"?

di Anna Laudati
Dopo gli appuntamenti elettorali il governo ridiscuterà la proposta di legge relativa all’abolizione del “valore legale” della laurea. Ma i problemi dell’università italiana dipendono dal valore oggi attribuito al titolo accademico? (di Ivana Vacca)

 

laurea.jpgIn Italia solo il 19% dei giovani tra i 25 e i 34 anni sono laureati (dati Eurostat), contro una media europea del 30%, eppure i promotori della più recente proposta di legge parlano di “laurifici”, soprattutto nel definire le Università del sud Italia, di lauree comprate e “lauree facili”. I casi limite esistono e vanno assolutamente condannati, e la situazione universitaria italiana è di sicuro disastrosa e va riformulata, ma, anche dopo il colossale fallimento del 3+2, i suoi problemi come verranno affrontati dal governo? Tra poco la questione della riforma dell’Università dovrebbe arrivare al Consiglio dei Ministri, e comprendere anche il commissariamento per gli atenei in rosso.

La Proposta n. 2250 della Camera dei Deputati dello scorso 27 febbraio, appoggiata dai Ministri Gelmini e Brunetta, maldestramente ricalca il Disegno di Legge n. 1252 del senato sull’ordinamento del sistema universitario nazionale. Punto centrale è l’abolizione del “valore legale” del diploma di laurea, valore non direttamente espresso dalla legge italiana ma riguardante la legittimazione d'idoneità, con effetto giuridico, che lo Stato italiano riconosce a coloro che superano esami e atti di valutazione e giudizio, alla fine di un corso di studi.

I promotori hanno spiegato che “abolire il valore legale della laurea significherebbe ottimizzare la gestione delle risorse, eliminare sprechi, distorsioni e «lauree facili», e porterebbe automaticamente a una concorrenza virtuosa che riguarderebbe ogni aspetto saliente del sistema formativo universitario”. Le lauree non sarebbero più tutte uguali di fronte alla legge e le conseguenze riguarderebbero due discipline in particolare: l’esercizio delle libere professioni, con la conseguente abolizione degli albi, e l’accesso ai concorsi pubblici. Paolo Gianni, docente dell’Università di Pisa, si colloca tra le posizioni critiche dicendo  “pretendere il possesso della laurea per accedere ad una qualunque posizione qualificata indipendentemente dall’ateneo che l’ha rilasciata non significa affatto mettere tutte le università sullo stesso piano. Significa solamente stabilire che il titolo richiesto costituisce il ‘requisito minimo’ per accedere al concorso. Tale giudizio non privilegerà aprioristicamente alcun ateneo, limitandosi al giudizio sui singoli candidati. Sarà solo la probabile migliore preparazione ricevuta in un ateneo “virtuoso” che potrà avvantaggiare un candidato che ha ivi studiato. Ma un qualunque altro candidato in grado di dimostrare analoghe capacità dovrà avere le stesse “chances” indipendentemente dall’ateneo di provenienza... Ma ammettiamo per un momento che alla laurea non sia associato il valore legale. Ciò significherebbe che per l’accesso a posizioni qualificate nella p.a. ci si affiderebbe alla sola selezione concorsuale. In un paese ideale non ci sarebbero problemi (…)”.  Ed infatti è proprio quest’ultimo uno dei principali timori degli studenti che vedrebbero soltanto vanificato il loro sacrificio allo studio qualora dovesse passare il provvedimento, che pur ispirandosi al modello anglosassone, dovrebbe tener conto che sia i sistemi di valutazione degli istituti scolastici, che quelli di selezione dei candidati ai concorsi, sono assolutamente carenti dei meccanismi virtuosi presenti in altri paesi. Vige, inoltre, tra i più scettici nei confronti del governo, l’idea che negare il valore legale del titolo di studio potrebbe costituire invece uno strumento per realizzare nel medio lungo termine la privatizzazione dell'istruzione universitaria. Per ciò che riguarda invece la qualità dell’insegnamento, la precarietà dei docenti e il sempre più diffuso potere baronale, una soluzione viene suggerita da Tomaso Montanari, professore dell’Università degli Studi di Napoli, che propone di cambiare il regolamento dei professori a contratto: “quale libertà di pensiero e di ricerca è possibile per una generazione che vive aspettando il rinnovo annuale del contratto da parte del professore (cioè dal barone, da cui  dipende)?”