Autolesionismo e giovani."Un Emo non è tale finché non si suicida". Perché?

di Anna Laudati

Generazione Emo. Tagli, graffi, bulimia e anoressia, dipendenza dall’alcol e dalle droghe, sono i sintomi di un’intera generazione che va dai dodici ai trent’anni, che ha perso i contatti con la realtà e a cui nessuno ha insegnato a volersi bene (di Giuseppina Ascione)

autolesionismo_foto.jpg“Autolesionismo, Disturbi Alimentari e Disturbi di Personalità” è il titolo del primo convegno dedicato a questo fenomeno che si è tenuto a Vicenza nei primi giorni di ottobre e dove sono stati presentati dati davvero inquietanti sul rapporto che i giovani hanno con se stessi e con la gestione delle proprie emozioni e turbamenti. L’autolesionismo (‘farsi male’ volontariamente senza intenzioni suicide) è in espansione. Il 20% degli universitari e il 22% degli studenti di scuola superiore ha ammesso di aver avuto almeno un episodio autolesivo nella propria storia personale. Ancora più preoccuapante l’incidenza di questi episodi in persone con disturbi alimentari, dall’anoressia al Binge eating.

Prima di tutto graffi, scelti dal 50% dei pazienti. Segue il provocarsi tagli (34%), colpirsi fino a procurarsi lividi (24%), bruciarsi (20%) strategia che pare preferita dai maschi e mordersi (14%). E’ il nuovo e sconosciuto fenomeno dell’autolesionismo. Secondo i dati presentati nel corso del convegno, pare che il 20,6% di studenti universitari sani ha sperimentato nel corso della propria vita un episodio di autolesionismo con un’età media di esordio di di 12,85 anni. Leggermente superiore la percentuale di una medesima ricerca compiuta su 219 studenti di scuola superiore: il 22.8% si è procurato ferite o traumi volontariamente almeno un volta nella vita. 

 

“Sono diversi i motivi per cui  ragazzi si infliggono ferite o si procurano dolore anche molto acuto per evitare o sopprimere immagini o ricordi dolorosi o in generale emozioni negative; per entrare in uno stato di torpore o insensibilità  per avere attenzione degli altri” spiega Roberto Ostuzzi, Presidente del Convegno; Presidente Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA) e  Medico Responsabile Centro Disturbi Alimentari Casa di Cura Villa Margherita,  Arcugnano (VI). Tali comportamenti si possono presentare con frequenza ed intensità variabili arrivando a compromettere l’integrità fisica del soggetto fino a giungere, talvolta, ad esiti fatali. L’indice di mortalità di questi pazienti, è stimata intorno al 9%-10%. 

 

Ma la causa di tali modi di agire può essere ricercata anche nelle cosiddette neo-culture con cui molti giovani si identificano. Una su tutte la cosiddetta Emo (da emozioni), un filone punk-rock che trae la sua origine dallo stesso genere musicale, ma che sfocia in un vero e proprio stile di vita seguito da moltissimi adolescenti. I cosiddetti “Emo” sono solitamente giovani dei quartieri bene che per noia, per ricerca di attenzioni o semplicemente per novità, vestono in maniera stravagante ispirandosi ai punk degli anni 60 e 70, ascoltano e leggono brani che incitano all’autolesionismo, fino a giungere al suicidio nei casi più estremi, frasi del tipo “Un Emo non è tale finché non si suicida, ergo tutti gli Emo sono ‘poser’ (che si atteggia)” sono all’ordine del giorno in questi ambienti. Ma cosa spinge questi adolescenti procurarsi dolore volontariamente? 

 

Una piccola indagine presentata sempre nel corso del Convegno ha permesso di inquadrare un pò meglio il profilo psicologico di chi ha sofferto o soffre di autolesionismo. Dei 27 soggetti che hanno aderito a un questionario proposto on line (22 femmine e 5 maschi) di età compresa tra 15 e i 30 anni (media 20,77) il 66.67% presenta notevoli difficoltà nella sfera emotiva; l’11,11% lievi difficoltà e il 22,22% sembra non presentarne. Il 70 % riporta esperienze traumatiche con tratti rilevanti di rabbia e irritabilità, l’88% ha elevati livelli di depressione.

 

“Questi comportamenti risultano particolarmente presenti in quadri patologici come il disturbo alimentare (anoressia, bulimia o binge eating) di per sé caratterizzati da eccessiva attenzione verso il proprio stato corporeo e dalla sua manipolazione, e a difficoltà di base nell’autostima e nella gestione delle emozioni” illustra Ostuzzi.

 

A dimostrazione dell’elevata correlazione tra comportamenti autolesivi e diagnosi di Disturbo Alimentare esiste una interessante letteratura. Claes e Vandereycken hanno pubblicato i dati della loro indagine compiuta su un campione di 134 donne con disturbo alimentare (di cui il 26.9% con anoressia restrittiva, il 43.3% con anoressia di tipo bulimico e il 29.9% con bulimia): il 44.6% dei soggetti esaminati ha sofferto di autolesionismo. Nell’anoressia di tipo bulimico il 51.8% dei soggetti mette in atto comportamenti autolesivi, nella bulimia il 43.6% e nell’anoressia restrittiva il 34.3%. Dalle ricerche svolte all’interno del reparto dei disturbi alimentari della casa di cura Villa Margherita su 230 soggetti ricoverati, il 25.7% riporta di avere messo in atto comportamenti autolesivi sia nella storia di vita che durante il percorso di cura in atto. I comportamenti maggiormente presenti sono tagliarsi, bruciarsi, mordersi, darsi pugni, graffiarsi, sbattere la testa contro il muro. Rispetto al tipo di disturbo alimentare, questi soggetti autolesionisti hanno per il 53% una bulimia, per il 42% un’anoressia (10% restrittiva, 32% di tipo bulimico) e per il 5% un binge eating.

 

La presenza del disturbo di personalità è dell’81%, mentre l’assenza è del 19%. Per quanto riguarda il tipo di disturbo di personalità, prevale quello borderline con il 62% seguito nel 19% dei casi dal disturbo evitante di personalità. Nei pazienti borderline, i comportamenti autolesionistici sono estremamente frequenti (75%-90%) e possono essere di intensità tale da portare nel 10% circa dei casi a esiti fatali.

 

“Non stupisce la correlazione dell’autolesionismo con i disturbi alimentari visto che anche questi ultimi possono essere considerati una forma ‘alimentare’ del farsi del male e sono figli di uno stesso tipo di malessere” conclude Ostuzzi.

 

“Per i clinici che si occupano di tali disturbi è importante proporre interventi di cura integrati finalizzati al trattamento complessivo della patologica con particolare attenzione all’utilizzo di strategie e tecniche terapeutiche finalizzate a ridurre l’intensità e la frequenza di tali manifestazioni patologiche” conclude Ostuzzi.