Siamo a mille morti nella Striscia di Gaza. Le foto della catastrofe umanitaria anche su Facebook

di Anna Laudati
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Colonne di fumo nero che sembrano alzarsi in preghiera verso il cielo, fra le macerie di case, negozi, strade, macerie di interi quartieri, di città. A rompere il silenzio irreale solo l’esplosione delle bombe, il crepitio dei mitra, le urla terrorizzate di civili e soldati, lo strazio per i morti (di Monica Scotti)

gaza.jpgE’ la guerra. E’ il volto che Gaza sta mostrando al mondo attraverso le foto e i video che arrivano ai media (ancora impossibilitati ad entrare nella Striscia, teatro degli scontri), che circolano in rete, che vengono diffusi nelle community come facebook. Il bollettino degli scontri il 14 gennaio ha tagliato il nastro nero un traguardo che scuote le coscienze: è salito a 1.000 il numero dei morti fra i civili palestinesi.

Tra questi almeno 100 sono donne e 300 sono bambini stando agli allarmanti dati forniti dall’Unicef. Suscita sgomento anche il numero dei feriti, oltre 4.300 secondo le prime stime. Intanto le porte del pronto soccorso dell’Ospedale di Shifa a Gaza City restano spalancate per accogliere i feriti, spesso gravissimi, che affollano la struttura ormai prossima al collasso. 

“Emergenza umanitaria” è il verdetto delle Organizzazioni Croce Rossa e Mezzaluna Rossa Internazionale, che attraverso le parole del presidente del Comitato della Croce Rossa Internazionale (Cicr), Jakob Kellenberger, lanciano un appello ad ambedue le parti a non colpire la popolazione civile denunciando una situazione a dir poco “drammatica”, aggravata dal collasso del sistema fognario e dall’impossibilità di seppellire i morti nel cimitero locale, ormai pieno.

 

Ma l’operazione “Piombo fuso” partita 20 giorni fa da Israele non si ferma, non ha ancora raggiunto il suo obiettivo primario: l’interruzione del lancio dei razzi che i miliziani di Hamas lasciano quotidianamente cadere nel sud del paese accompagnata dal blocco del contrabbando di armi attraverso i cunicoli scavati nel terreno poroso che separa Gaza dall’Egitto.Dall’inizio dell’offensiva, infatti, la pioggia dei razzi diretti verso le città israeliane del meridione non si è mai fermata, rafforzata, invece, dalla ripresa del lancio di razzi dal fronte settentrionale al confine col Libano (due episodi che non hanno causato vittime in una decina di giorni).

 

Hezbollah, il partito militante sciita nato proprio in occasione dell’occupazione israeliana del Libano nel corso della cosiddetta operazione “Pace in Galilea” del 1982 e attivo negli scontri replicatisi nel non lontano 2006, non rivendica però la paternità dei nuovi attacchi missilistici, che potrebbero essere stati organizzati, secondo fonti israeliane, dagli stessi militanti palestinesi. La guerra continua ma non evolve, non ancora.

 

Le truppe di riservisti israeliani addestrati e richiamati al fronte si sono infatti posizionate lungo i confini di Gaza, ma non è stato ordinato loro di penetrare all’interno del territorio palestinese per dare il via alla terza fase del conflitto, la fase più dura, quella che, dopo il lancio di bombe e l’ingesso dei carri armato, prevede l’avvio di scontri via terra portati avanti dalla fanteria casa per casa nei centri abitati.

 

Forse un segno di speranza per la diplomazia internazionale, che al Cairo pare aver raccolto oggi il primo “si” degli esponenti di Hamas alle proposte egiziane per la tregua a Gaza, pur nella consapevolezza che ci sono ancora punti di disaccordo sulla difficile mediazione con Israele e che la conflittualità interna fra Hamas, partito al Governo con forte seguito proprio nella Striscia di Gaza, e al-Fatah, partito dell’attuale Presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen nonché del suo predecessore Yasser Arafat, non aiuta certo il processo di pacificazione del Medio Oriente messo già a dura prova dalla guerra.

Ciò che è certo è che da questa mediazione dipende la vita del popolo di Gaza, un popolo che piange 1.000 morti e che in un momento di dolore raccoglie l’inaspettata solidarietà di alcuni giovani israeliani (almeno una decina), che pur essendo riservisti reclutati dall’esercito si sono rifiutati di partecipare agli attacchi affermando di non condividere le scelte del loro Governo. Questi giovani “disertori” per amor di pace, rischiano ora fino a tre anni di carcere.