Servizio Civile? Borrelli: "Tutto deve cambiare affinché nulla cambi"

di Anna Laudati
Il Gattopardo e il Servizio Civile Nazionale (di Enrico Maria Borrelli)

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Mi dispiace dirlo, ma l’avevamo detto. “Storie di stragi, torture e sangue”, così apre l’articolo di Vita del 10 luglio 2009 indagando gli esiti del consueto, e sempre più triste, bando ordinario del Servizio Civile Nazionale. Ma cosa si aspettano ogni anno gli enti? Fiumi di progetti approvati e volontari come se piovesse? Per il bene di chi? Dei tanti bisogni che soddisfano sul territorio o per la rituale nenia dell’opportunità negata ai giovani? In Italia, si sa, le cose vanno sempre come vanno. I soldi non bastano mai, mentre le lamentele sono talmente tante che convertendole in euro rimpinguerebbero persino l’arido fondo del servizio civile. Mentre, sempre nello stesso articolo, sedicenti esperti si affannano a declamare i motivi del successo dei loro enti, migliaia di piccoli e grandi associazioni si scoprono vittime di un sistema intenzionalmente chiuso.

In trent’anni di obiezione di coscienza in Italia erano proliferati oltre 11.000 enti convenzionati con il Ministero della Difesa per l’impiego di obiettori. Un numero che lascia immaginare, a chiunque goda di buon senso, situazioni di eccellenza accanto a comprensibili patologie di un sistema tanto ampio. Correva l’anno 2002 quando, agli albori della legge 64 e in vista delle sue prime sperimentazioni, si fecero avanti le prime preoccupazioni: i soldi non basteranno per tutti.

Non si poteva neanche definirla una riflessione, quanto piuttosto un banale calcolo per ragazzi di scuola elementare. L’italiano, tuttavia, è lingua ricca e i termini dietro cui nascondere il timore di restare esclusi evocavano invece temi altisonanti che potremmo sintetizzare nel verbo assoluto della “qualità”.

Si sa che la necessità aguzza l’ingegno e fu così che l’Ufficio Nazionale, di concerto con la Consulta,  meglio dire la Cnesc (Conferenza Nazionale degli enti di servizio civile), partorì la prima “spontanea” idea di mettere a sistema un accreditamento selettivo degli enti allo scopo di innalzare la cosiddetta “qualità” del servizio civile. Val la pena qui sottolineare che la Cnesc è presente in Consulta con sei posti sugli otto dedicati agli enti e quindi autodetermina la maggioranza rispetto a qualsivoglia tesi sostenga.

Per onore di verità, qualcuno provò anche a dire che un siffatto sistema avrebbe tagliato le gambe alle piccole associazioni, le uniche realmente legate al territorio, e chiuso il cerchio intorno alla tavola di pochi enti nazionali. Ma a nulla valsero le argomentazioni, di fronte all’obiettivo supremo della “qualità”. La strada era segnata e l’obiettivo inderogabile.

I primi anni sono andati come previsto, 40 enti spazzolavano l’80% dell’intero fondo nazionale, lasciando un equo 20% alla restante Italia non associata, federata o consorziata: oltre 2.000 enti.

Nella fretta di stringere il cappio, sfugge all’attenzione che tanti piccoli enti potevano invece legarsi in accordo di partenariato, preservando uno dei valori cui ogni associazione tiene di più: l’autonomia.

Come immaginare che questa piccola, sottovalutata, finestra aprisse la porta degli inferi per i legislatori della “qualità assoluta”? Eppure, in meno di tre anni spunta una mina vagante, un ente in grado di ottenere cinque volte il numero di volontari della Caritas.

Una rondine non fa primavera, ma uno stormo probabilmente si.

Tanti sono gli enti che iniziano ad organizzarsi attraverso la formula del partenariato, addirittura le più tradizionali Arci e Caritas. Naturalmente, c’è una gran bella differenza tra chi ha scritto la storia del servizio civile e chi si sforza di scriverne le pagine moderne. Inizia così il calvario di un sistema che è sfuggito al controllo degli oligarchi e che pertanto ad ogni costo andrà corretto.

Tutto ciò che è “nuovo” finisce per essere messo alla gogna.

Si parte con la Formazione a Distanza, troppo fredda e sterile. Poi la progettazione in rete, troppo comoda. Infine i partenariati, slegati dal territorio.

Grazie a Dio, l’innovazione, quando per altro è buona, è sempre contagiosa ed è per questo che la stragrande maggioranza degli enti “storici” oggi usano la stessa Formazione a Distanza contro la quale, si badi bene, hanno votato al tempo in cui la usava solo l’associazione Amesci. Moltissimi enti sviluppano la progettazione in rete. Quasi tutti hanno stipulato partenariati.

Nel contempo, la battaglia per la “qualità assoluta” assume il carattere della farsa.

Nel 2007, durante le riunioni del Tavolo congiunto per la modifica dell’accreditamento, Fausto Casini, allora presidente della Cnesc e ancora oggi presidente nazionale delle Anpas, cerca di far inserire tra i requisiti obbligatori per gli enti la propria storia nel servizio civile. Largo ai giovani!

Si cerca insomma di appesantire l’accreditamento con tutti quegli ostacoli che solo le associazioni “tradizionali” possono superare, ma inaspettatamente il Tavolo, composto da tre rappresentanti della Consulta (Cnesc, Arci Servizio Civile e Amesci), tre rappresentanti delle Regioni (Lombardia, Emilia Romagna e Campania) nonché dallo stesso Ufficio Nazionale scopre un nuovo quanto inatteso equilibrio: le regioni appoggiano Amesci nella difesa dell’esperienza degli enti di promozione (quelli che la più vile pubblicistica definisce sbrigativamente service). Il Tavolo si divide 4 a 3, “stranamente” il lavoro viene insabbiato e, come tutti sappiamo, la riforma nel 2007 non ha luogo. Fortuna che ne resta traccia nei verbali, o almeno in qualche registrazione dell’UNSC.

Ma torniamo a fare due conti.

Dopo aver sostenuto per anni che chi vive di servizio civile (progettisti, formatori, selettori, ma anche i dirigenti degli enti che per farlo funzionare dedicano un anno intero della loro vita accanto ai giovani senza che UNSC paghi un euro) ne fraintende il senso e ne tradisce lo spirito, la Cnesc nel suo decimo rapporto annuale rende noto che i suoi enti investono, tutti insieme, oltre 10 milioni di euro per sostenere il servizio civile nazionale (vedi pag.13 del X° rapporto annuale 2008 Cnesc). In media 1 milione e 57 mila euro per ogni ente.

La stessa classe delle elementari che aveva intuito la scarsità di fondi nel 2002 certo si starà chiedendo come mai queste associazioni investano tanti milioni di euro per il Servizio Civile senza che questo produca nessuna forma di sostegno per gli stessi. E, non di meno, resta da spiegare da dove introitino cifre di questo genere da investire.

Pensar male è peccato ma, come diceva qualcuno, s’indovina spesso.

Così, mentre nelle sedi istituzionali si continua a parlare di service come di un fenomeno deplorevole e di mercimonio dei volontari, Arci Servizio Civile chiede oltre 300 euro per ogni volontario a tutte le sue sedi periferiche (la sede di Arci Napoli non ha più volontari per non aver saldato un ingente debito!) e costi ben più elevati per i partner che non sono soci, Confcooperative si aggira più o meno sulle stesse cifre, le Unpli prendono 200 euro a progetto (a fondo perduto e qualunque sia l’esito) più 50 euro a volontario (preventivamente all’atto della presentazione dei progetti) dichiarando tuttavia a Vita di non pagare neanche i propri formatori (tutti volontari), le Anpas circa 250 euro.

La differenza che c’è tra un service e gli enti della Cnesc - dichiarava in Consulta il presidente di un noto ente - è che loro i soldi li chiedono agli associati, ai federati o ai consorziati. Ma allora non dovrebbero darglieli gratis, visto che in quanto soci già pagano la quota annuale di associazione? E cosa pensare dei tanti casi in cui gli stessi enti offrono consulenza agli enti locali o ad altre organizzazioni del terzo settore con tariffari ben più costosi (e ci sono fior di delibere pubbliche che lo attestano)?

La questione, dunque, sembrerebbe più complessa. E’ sbagliato attribuire un valore economico alle professionalità nel terzo settore? Esiste un qualche ambito del terzo settore (sociale, culturale, ambientale) in cui le organizzazioni non offrano la propria competenza a fronte di equi corrispettivi economici? Che fine hanno fatto la battaglia condivisa dall’intero mondo del no profit per il riconoscimento e la valorizzazione del ruolo sociale dell’economia cooperativa o il dibattito sulla dignità delle imprese sociali?

Personalmente trovo che sia una questione di onestà intellettuale dire, per esempio, che i formatori non possono essere volontari perché è impossibile trovare persone così folli da dedicare cinque mesi all’anno, ogni anno, per girare volontariamente e gratuitamente l’Italia a formare altri volontari (quelli del servizio civile che sono invece pagati dallo Stato).

Siamo proprio sicuri che retribuire i formatori, i progettisti, i selettori, i responsabili del monitoraggio e via dicendo, (per altro professionisti con fior di curricula perché così li chiede l’UNSC in accreditamento), non offra invece al sistema una maggiore garanzia di qualità, di stabilità e di efficienza? O forse se favoriamo l’occupazione contravveniamo a uno dei cinque principi della legge 64?  

L’UNSC intanto, oramai affetto da burocratismo irreversibile e da una preoccupante e autoreferenziale presunzione di efficienza, completa il suo capolavoro con la nuova circolare sull’accreditamento, in cui va contro tutti, persino contro la Cnesc. Nessuno sapeva, e soprattutto nessuno temeva, che questa follia amministrativa avrebbe lasciato fuori la Caritas, che per problemi legati alla propria natura giuridica aveva stipulato solo accordi di partenariato.

Tra parentesi, questo spiega anche perché la Caritas nei suoi documenti attaccava i partenariati (quelli dei vituperati service), ma sosteneva che ci sono anche “partenariati in cui gli enti si trovano bene e vogliono continuare” (probabilmente sulla base di una “ultrascientifica” indagine a campione svolta sul solo responsabile del servizio civile nazionale della Caritas!).

Poiché le vie del Signore sono infinite, ecco la via di fuga per la Caritas nella nuova versione della circolare: pur riducendo i partenariati nella misura del 40% massimo delle sedi dell’ente accreditato, si accomunano ai legami associativi, federativi e consortili quelli canonico-pastorali.

Ma se il partenariato canonico-pastorale vale al pari di un vincolo associativo, che è una forma aggregativa riconosciuta dall’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana, verrebbe da chiedersi come mai non valgano le forme di accordo stipulate ai sensi del nostro codice civile. Forse solo gli accordi della Chiesa vengono firmati “in fede”?

Misteri degli “interna corporis” dell’Unsc e della Cnesc. Cosa accadrà adesso? In sintesi Amesci, per continuare a fare servizio civile, dovrà giocoforza associare oltre 300 partner con le loro 2.300 sedi, con ciò alterando la propria mission e la compagine associativa di un’organizzazione che fino ad oggi, perseguendo i suoi scopi, ha associato solo giovani e i suoi partner finiranno per essere subordinati ad un vincolo associativo che di fatto limiterà la loro autonomia.

Ne saranno certamente entusiaste la Federazione delle Associazioni di Volontariato Oncologico, la Confederazione Nazionale delle Università Popolari d’Italia, l’Associazione Italiana Malati di Cancro, i Centri Universitari Sportivi di tutta Italia, la Federazione Italiana Superamento Handicap, gli Animalisti Italiani, i Vigili del fuoco in congedo, l’Istituto di ricerca e studi di protezione civile (ISPRO), le comunità di San Patrignano, le centinaia di presidenti di piccole associazioni, i sindaci dei comuni, i presidenti delle province, i presidenti delle comunità montane, i direttori degli ospedali, i presidenti dei consorzi e delle autorità di bacino. Tutti in lista, accreditamento alla mano, a chiamarmi presidente.

In conclusione, se da queste note risulta chiaro il quadro nel quale si presume debba crescere il Servizio Civile Nazionale, si può facilmente comprendere come mai il Parlamento stanzi sempre meno fondi e i giovani si stiano sempre più disaffezionando. L’importante è che sia tutto di “qualità”.