Anoressia, la testimonianza di Giulia: “La mia vita doveva essere senza sapore”

di Gianfranco Mingione
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Una parola che deriva dal greco e che in medicina indica una mancanza patologica di appetito da parte di una persona. Una malattia che colpisce soprattutto le giovani donne, che si ritrovano sul web a condividere uno stato psico-fisico che apre le porte ad una vita fatta di rinunce e solitudine: una vita, per l’appunto, senza sapore.  (Gianfranco Mingione)

Giulia

Gulia ha quasi 19 anni. La prima volta che ci siamo scritti via mail ho colto subito dalle sue parole un aspetto che la caratterizza molto: la sua voglia di vivere. Vederla sorridere ha poi confermato tutto questo, un naturale sorriso che dà così tanta luce ai suoi occhi. Proprio questa ragazza vitale, non molto tempo fa, e nel periodo più critico per ogni adolescente, ha sofferto di anoressia. Un male che non ha nulla a che vedere con la vita e con il sorriso. E allora mi sono chiesto, e le ho chiesto, come è possibile? Come è stato possibile per una giovane così soffrire di un male che porta alla solitudine, alla tristezza, in una parola sola all’autodistruzione?

Da qui, da tale curiosità è nata questa testimonianza, non una morale o un comandamento da seguire. Di certo un racconto per capire cosa accade e come si può arrivare a desiderare di non star bene con se stessi. Capire perché l’anoressia ci fa vivere una vita senza sapore. Ed in questa frase, in questa semplice ed efficace constatazione, vi è già la premessa per una lotta verso la guarigione.


 Un male che viene da lontano. Mi chiamo Giulia Troncon. Sarebbe impossibile indicare un momento specifico in cui ho iniziato a stare male. Sono nata in un periodo difficile per la mia famiglia e fin da piccola sentivo che c’era qualcosa nel clima attorno a me che non andava bene, perciò, comprendo oggi a posteriori, che senza rendermene conto avvenne che mi prefissai l'obiettivo di cercare di dare meno disturbo possibile, o meglio che sarei dovuta riuscire a rendere io felice la mia famiglia. Mi sentivo come in debito nei confronti dei miei genitori; volevo che fossero orgogliosi di me, specialmente mio padre che avevo molto idealizzato come modello di perfezione. Da che ricordo mi sono sempre sentita sola, di troppo e inopportuna in ogni situazione. Alla luce della consapevolezza raggiunta oggi, ricordo la mia vita come una progressione di dipendenze.

Il rapporto simbiotoco con la madre. La prima, senza dubbio più grande, da mia madre, ci vedeva legate reciprocamente in modo simbiotico, solo con lei mi sentivo al sicuro, protetta dal mondo. Quando lei era assente o si allontanava avevo delle forti crisi isteriche di pianto; mi mancava l’aria senza di lei e lei stessa mi ripeteva che io ero la sua vita. Avevo il continuo terrore di perderla. Nelle poche e rare amicizie che riuscivo ad instaurare cercavo di ricreare questo tipo di rapporto simbiotico, ed ero talmente morbosa da portare l'altro inevitabilmente ad allontanarsi.

L'adolescenza: una fase cruciale. A undici anni è arrivato quello che ricordo di aver vissuto come la più grande disgrazia della mia vita: il ciclo mestruale. Stavo crescendo ma non mi sentivo ancora pronta. All'aumentare del seno crescevano anche le preoccupazioni di mia madre, e di conseguenza mia, sul rischio di attrarre uomini e poter essere in qualche modo in pericolo; venivo educata a dover portare con me le bombolette anti stupro per evitare che a causa delle mie nuove forme da donna qualcuno potesse violentarmi, e c'era l'esplicita richiesta di evitare i ragazzi almeno fino ai 18 anni. Anche per questi timori ansiosi ho interiorizzato il rapporto uomo-donna in modo assolutamente distorto e pericoloso, non come qualcosa di naturale bensì come qualcosa da evitare e cancellare. Ho compreso a posteriori che allora ero come un contenitore, una spugna che assorbiva la realtà in base a come la mia sensibilità di bambina la avvertiva.

All’interno della mia famiglia io avvertivo varie mancanze e per sopperire ad esse ho fatto di tutto per essere la figlia modello che tanto avevano atteso, diventai la numero uno in tutto, a scuola, nella musica e nelle attività sportive: tutto per sentirmi la migliore, ma mai per essere me stessa. Ho sempre pensato di dover soddisfare delle aspettative mai palesemente richieste dai miei genitori, ma che io ho avvertito come tali.

L'arrivo del buio. Durante il periodo delle superiori iniziai a chiudermi sempre di più e ad essere preda di una crescente depressione. Cominciai a non frequentare più nessuna amica,  eccetto ovviamente mia mamma. Provavo interesse verso i ragazzi ma era subito repressa da forti fobie, e il fatto stesso di provare quel naturale interesse lo proiettavo sulla mia immagine allo specchio, che mi appariva volgare. Avevo paura di essere desiderata, mi faceva schifo, e avevo terrore del mio di desiderio, che vivevo con vergogna temendo che dall'esterno si potesse vedere.

Tutte quelle attenzioni sul corpo e sullo specchio aumentarono velocemente, iniziai  a concentrare tutte le mie attenzioni sul corpo e sul cibo che erano ormai la mia unica fonte di piacere consentita. speravo che dimagrendo e cancellando il corpo, con esso sarebbero venuti meno anche i suoi desideri. Facevo infinite passeggiate dopo la scuola anziché andare a casa a pranzo e continuavo a restringere sempre più l'alimentazione.

Sul web le istruzioni della "filosofia" pro ana. Diventai una assidua frequentatrice dei blog pro-ana, cioè pro-anoressia, su cui trovavo consigli per digiunare. Restavo ore davanti allo schermo, aggiungendo all’ anoressia ormai conclamata anche una dipendenza da internet, che creava crisi d’astinenza quando non riuscivo a connettermi al mio mondo virtuale. Avevo 14 anni e mi sentivo forte, euforica, onnipotente.

Perdevo peso a vista d'occhio e passavo ogni ora sulla bilancia. Molti ricordano il periodo anoressico, di restrizione alimentare come uno dei più “belli” della malattia; io, escludendo il primo momento di euforia lo ricordo oggi come un incubo. Avevo spesso collassi e ogni giorno facevo delle flebo in casa. Avevo crisi di nervi con chiunque si mettesse tra me e la malattia e i conflitti tra me e la mia mamma si fecero molto violenti.

Una discesa nel maelstrom. Giorno dopo giorno mi sono ritrovata dentro un vortice, una prigione che mi ha portata a pesare 26 chili a 15 anni e a mangiare 4 gamberetti al giorno. Continuavo a vedermi enorme. Stavo in casa perché tremavo continuamente dal freddo, attaccata al termosifone con lo sguardo spento, privo di vita. Non riuscivo a fare le scale, spesso dovevano prendermi in braccio perché non avevo più muscoli nelle gambe. La mia famiglia era distrutta e io non ne potevo più di stare così male.

Ma poi qualcosa accade. Dopo mesi di digiuno e con un peso di una bambina di 8 anni il medico mi diede l’aut- aut: o ti fai ricoverare o ti facciamo ricoverare noi. Sentivo dire che ero a rischio di vita, ma io non me ne rendevo conto. Mi rifiutavo di seguire quella strada, non la vedevo come una soluzione al mio infinito dolore. Però io volevo capire, comprendere perché da anni mi odiavo così tanto. Pur di evitarmi il ricovero mi sono messa a cercare disperatamente su internet … e lo strumento che fino a mesi prima utilizzavo per distruggermi con i siti pro ana, mi ha salvata. Trovai il sito del centro MondoSole di ChiaraSole, e chiesi ai miei genitori di poterla incontrare.

Ricordo quel giorno a frammenti, non ero molto lucida. Ero spaventata all’idea di staccarmi dalla mia casa e dalla famiglia d'origine, e, soprattutto dalla mia mamma. Il 19 marzo 2008 ho iniziato il mio percorso di cura. Mi sono affidata e oggi sono qui, a raccontare la mia storia.

Oggi ho capito che immersa totalmente nella mia malattia, non avevo idea di cosa in realtà fosse il mostro che avevo dentro. Ho verificato sulla mia pelle come anoressica non sia solo una persona sottopeso. Io ero anoressica anche quando non c'era più un rischio medico. Restringevo la mia vita, le relazioni sociali, non mi concedevo niente di femminile. La mia vita doveva essere senza sapore. Ora ho 18 anni e giorno dopo giorno continuo con umiltà a mettermi in gioco per raggiungere uno stato di benessere completo, in tutte le sfere della vita. Ad oggi riesco a dare un nome alle sofferenze che mi hanno attanagliato per anni senza più scaraventarle contro me stessa ed il mio corpo. Ora ho un rapporto sano con i miei genitori che adoro, e che non finirò mai di ringraziare per come mi hanno aiutata durante questo percorso, non per dimenticare ma per costruire dal nostro passato un rapporto sano e maturo. Ora so che è possibile lavorare sulla sofferenza, sulla paura, accoglierla e non più fuggirla con anestesie varie. La meta è sempre più vicina e non c’è giorno che ho passato che non rivivrei per essere quella che sono oggi.

Giulia{jcomments on}