L'efficacia del sistema penitenziario norvegese. Un ottimo esempio per l'Italia e non solo

di Anna Laudati

In Norvegia la punizione di un carcerato consiste nell’essere in carcere e non nel perdere i suoi diritti di cittadino. Così dovrebbe essere in tutti i paesi specialmente se democratici del mondo. Ma così non è. In foto una cella norvegese. (Andrea Sottero)

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Alle polemiche e alle proteste di chi denuncia una situazione al limite della decenza nelle carceri italiane siamo ormai abituati. Ma va anche detto che il Bel Paese è in ottima compagnia e che dure proteste infiammano anche in altri occidentalissimi stati democratici.

Sentire, quindi, da un vice ministro della giustizia che la punizione di un carcerato consiste nell’essere in carcere e non nel perdere i suoi diritti di cittadino, per quanto indubbiamente ineccepibile da un punto di vista etico, fa un tantino sorridere.

Eppure, secondo un articolo della rivista Time, nel sistema giudiziario norvegese non si tratta solo di un buon intento, ma di una realtà concreta, applicata quotidianamente nelle strutture penitenziarie esistenti e seguita alla lettera nella progettazione di quelle nuove.

A Bastoy, un’isola a una settantina di chilometri da Oslo, in uno scenario suggestivo con vista sui fiordi, i carcerati vivono in comunità, si prendono cura dell’ambiente, si tagliano la legna, coltivano orti e allevano animali, hanno accesso a tutti gli strumenti di lavoro, vivono in case senza sbarre e l’area non è dotata di alte recinzioni. Alcuni di loro lavorano persino sulla terra ferma (che raggiungono traghettati da altri detenuti) e tutto viene gestito con un ampio margine di libertà.

E’ bene specificare che non si tratta di piccoli criminali: tra loro ci sono anche assassini e rapinatori.

L’idea, secondo il ministro della giustizia norvegese Knut Storberget, è che per ridurre la criminalità non basta chiudere a chiave i criminali in una stanza, ma bisogna educarli e aiutarli con i fatti a reintegrarsi nella società.

In Norvegia anche le carceri di massima sicurezza sono molto attente alla qualità della vita dei loro detenuti e si propongono di ricreare un ambiente quanto meno alienante possibile, che riproduca villaggi, comunità e il senso della quotidianità in famiglia.

Il modello sembra funzionare: dati alla mano, nei successivi due anni dalla liberazione solo il 20% si dimostra recidivo, contro una percentuale vicina al 60% negli Stati Uniti.

Certo c’è chi critica il sistema, soprattutto per il fatto che sembra attirare criminali stranieri, spinti a “emigrare” nel freddo stato scandinavo dal trattamento di lusso dei suoi penitenziari. Ma al di là di chi vorrebbe le strutture migliori riservate ai cittadini norvegesi (neanche si trattasse di centri benessere), in generale la sindrome da “not in my backyard” sembra non attecchire qui: la gente si sente tranquilla e vede nelle strutture penitenziarie esistenti un’ottima opportunità di lavoro.

Ovviamente il trucco per spiegare questo successo c’è: in Norvegia il tasso di criminalità è piuttosto basso, 70 carcerati ogni 100000 persone, contro gli oltre 100 dell’Italia e gli oltre 500 degli Stati Uniti. Merito anche, dicono alcuni esperti, delle alte spese per il welfare stanziate ogni anno. In aggiunta a ciò, la mancanza quasi totale di sensazionalismo dei mass media nel riportare i crimini più efferati aiuta a diffondere quel senso di tolleranza necessario per gestire un sistema di questo tipo.

Se si pensa alle carceri Italiane vengono subito in mente i reati di mafia e il problema dell’immigrazione, significativo in un Paese così geograficamente esposto come il nostro. Una visione, questa, palesemente semplicistica, che nasconde questioni più radicate, ma, forse, anche più facili da trattare.

Altrettanto illusorio, però, sarebbe pensare di poter importare da noi un sistema come quello norvegese.

Considerato, tuttavia, che la carta costituzionale all’art. 27 recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, verificato che oggi la spesa carceraria annua nel nostro Paese supera i 2 miliardi di euro e dimostrato (non solo in Norvegia) che gli investimenti nella rieducazione dei carcerati producono esternalità positive, valutabili anche in un risparmio monetario sul lungo periodo, varrebbe la pena impegnarsi a rivedere l’intero sistema giudiziario, più che servirsi di “escamotage” inutili e potenzialmente dannosi come l’ultimo indulto.

Un esempio su tutti: le guardie carcerarie in Norvegia, secondo il Time, godono di uno status elevato e si guadagnano il rispetto dei detenuti non con le armi e la violenza, ma chiamandoli per nome, mangiando con loro e facendosi coinvolgere nelle loro attività ricreative . Un detenuto intervistato ha detto che il 20% di chi fa quel mestiere è inadatto e non dovrebbe essergli permesso di lavorare nemmeno con gli animali, ma il restante 80% svolge il suo lavoro come una vera missione, motivo per cui viene sinceramente stimato. Come siamo messi in Italia? Come vengono selezionate le guardie carcerarie? Qual è il riconoscimento (anche economico) che si dà loro per il compito che stanno svolgendo?