Articolo 18: totem o tutela?

di Ermenegilda Langella

Lo Statuto dei lavoratori è la definizione usata per riferirsi alla legge n. 300 del 20 maggio 1970, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" e si tratta della principale tra le norme del diritto del lavoro italiano. (Ermenegilda Langella)

costituzione_italiana Grazie alla sua introduzione furono apportate importanti e notevoli modifiche, sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali e, grazie alla sua validità, costituisce ancora oggi, tenendo presente le ovvie integrazioni e modifiche avvenute nel tempo, la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro. Nonostante ciò, periodicamente, assistiamo a tentativi, più o meno giustificati, di modifica soprattutto all’ormai famoso articolo 18 per il quale il licenziamento è valido solo se avviene per giusta causa o giustificato motivo, pena il reintegro del lavoratore.

Oggi ci troviamo, ancora una volta, di fronte alla volontà, da parte del ministro Fornero e quindi dell’attuale Governo, di modificare tale articolo, sostenendo che questa azione sarebbe coerente con la riforma del lavoro e aiuterebbe a risolvere i problemi dei giovani e della loro occupazione. In merito a ciò i sindacati hanno fatto fronte comune contro l’abolizione dell’articolo 18 attraverso le voci dei loro leader.

La leader della Cgil Susanna Camusso la considera“una norma di civiltà che impedisce i licenziamenti discriminatori.”, sottolineando, inoltre, che “ha un forte potere deterrente, per tutti, e non va cancellata.” Secondo la Cgil quindi “si parla di riforma, ma in realtà sono solo licenziamenti facili e non ci sarebbe quindi alcun nesso tra l’intento di riformare il mercato del lavoro e l’abolizione dell’articolo18”.

Bonanni, leader della Cisl, in merito alla questione ha dichiarato che "è una norma che serve solo a non far commettere abusi alle aziende. Toccandola si mette a rischio la coesione sociale, e senza coesione sociale una società sbrindellata come quella italiana va in pezzi”, aggiunge inoltre che "la precarietà è il risultato di una flessibilità pagata male. Il Governo si renda disponibile a pagare di più per il lavoro flessibile". Allo stesso modo Angeletti, leader della Uil, ha dichiarato “Stanno facendo una grande confusione. Se vogliono discutere delle norme che rendono legittimi i licenziamenti determinati da crisi aziendali, benissimo: siamo pronti a sederci attorno a un tavolo con i rappresentanti delle imprese. Facciamo un accordo all’insegna della chiarezza normativa e parliamo pure delle soluzioni per ridurre i tempi assurdi della giustizia del lavoro. Ma che cosa c’entra tutto questo con un articolo dello Statuto dei Lavoratori che protegge solo dai licenziamenti senza nessun motivo?”.

Ma qual è il punto di vista di un giovane precario in merito alla questione? Davvero considera positiva l’abolizione di questo articolo per la crescita dell’occupazione e la riforma del mercato del lavoro?

Lo chiediamo ad Antonella Pacilio della Segreteria Nidil Cgil di Napoli precaria dal 1998, data in cui si è laureata. “Si sa, la recessione porta con sé la disoccupazione, ma facilitare i licenziamenti sicuramente non aiuta ad assumere, nè aiuta il mercato del Lavoro. Secondo me ci troviamo di fronte ad un’altra manovra che colpisce i lavoratori, giovani, donne e precari.

La mia è una storia di 13 anni di contratti “atipici” come collaborazioni a progetto o incarichi professionali e tutta una serie di altre tipologie contrattuali che non sono altro che una legalizzazione del lavoro nero in quanto non ti offrono nessuna tutela, nessuna assistenza e pochissime possibilità di usufruire di ammortizzatori sociali.

Penso che una manovra finalizzata alla crescita del lavoro dovrebbe cominciare col ridurre a poche unità le 46 forme di precariato esistenti ed incentivare gli ammortizzatori sociali in modo equo. Si pensi, per esempio, ai contratti formativi per giovani, cannibalizzati da forme di lavoro come i falsi stage, i tirocini, i contratti di collaborazione, le partite iva, i voucher, i contratti a chiamata. Tutte tipologie contrattuali che non consentiranno certo ai giovani di accedere al mercato del lavoro in modo dignitoso. Nulla ha a che fare quindi l’abolizione dell’articolo 18 con una riforma efficace del lavoro”.

Giriamo la stessa domanda ad un giovane imprenditore, Fulvio Campagnuolo, presidente di PMI CAMPANIA Associazione delle Piccole e Medie Imprese Campania.

“Perché guardare il dito e non la luna? Se come afferma il ministro del Welfare Elsa Fornero, <la riforma del mercato del lavoro non sarà per far cassa, ma per cambiare i meccanismi perché bisogna fare in modo che il mercato del lavoro possa dare pensioni migliori ai giovani di oggi>, allora la polemica che si sta facendo è sterile e non conduce e nulla.

Se si vuole dare effettivamente spazio ai giovani non bisogna alzare inutili barricate e fare infruttuose e faziose polemiche, ma fermarsi e fare due semplici conti: innalzare l’età pensionabile è un grave danno per l’azienda che deve continuare a sostenere elevati costi del personale ormai alla soglia della pensione, privandosi magari della possibilità di assumere nuove risorse, molto più adatte a cogliere le opportunità che offrono, ad esempio, le nuove tecnologie e l’informatica, vera leva per lo sviluppo delle aziende e per un concreto abbattimento dei costi. Prevediamo, dunque, un incentivo per le imprese cosi strutturato: mandiamo subito in pensione dirigenti, magari facendo percepire loro un 50% della pensione, ed incentiviamo per la differenza un tutoraggio part time di almeno due giovani per ogni lavoratore che va in pensione che si affianchino a lui per 3/5 anni.

Se si fa un semplice calcolo dei contributi, in virtù della posizione retributiva dei due giovani, penso sia semplice immaginare quanto convenga. Inoltre, i contributi versati dai due giovani sarebbero sufficienti a pagare il 50% della pensione al dirigente che accetta tale condizione e che ne guadagnerebbe certamente in qualità della vita”.