Sakineh: Sospesa la pena. Perché la lapidazione, che per legge è impossibile da applicare, continua ad essere praticata?

di Anna Laudati

Cittadinanza iraniana, 43 anni, imprigionata nelle carceri di Tabriz (Iran nordoccidentale) in attesa d’essere lapidata: è Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna accusata d’adulterio e complicità nell’omicidio del marito che la comunità internazionale è riuscita per adesso a sottrarre a una morte terribile. (Monica Scotti)

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Sakineh ha avuto una relazione esclusivamente telefonica con un uomo, suo marito è stato ucciso: sono bastati questi due fatti, slegati tra loro, a spalancarle le porte del carcere e a far si che le fosse comminata la pena di morte al termine di un processo, ora in fase di revisione, che di legittimo ha ben poco: la donna è stata costretta a confessare pubblicamente i propri presunti crimini, quasi certamente a seguito di torture, e il suo avvocato Mohammed Mostafei, già difensore di Delara Darabi (la pittrice iraniana giustiziata nel 2009 per un delitto commesso dal fidanzato quando lei aveva solo 17 anni), ha dovuto abbandonare il paese e rifugiarsi in Norvegia per poter continuare a seguire il caso.

Petizioni lanciate in rete, appelli da parte dei leader politici di Italia e Francia e pressioni dei media hanno ottenuto l’8 settembre la sospensione dell’esecuzione della pena, ma per Sakineh, che resta in carcere, la fine dell’incubo che ha acceso i riflettori sull’Iran (già nell’occhio del ciclone per la questione del nucleare) è ancora lontana. Il figlio teme che la condanna venga eseguita con un colpo di mano senza aspettare l’esito della revisione del processo, malgrado la legge iraniana imponga di dare notizia dell’esecuzione al legale e ai congiunti del condannato.

Tutto ciò fa riflettere su cosa sia più insidioso: un sistema giudiziario di stampo sharaitico come quello adottato dall’Iran all’indomani Rivoluzione Islamica sciita, che ha permesso nel 1983 la reintroduzione della lapidazione nel sistema penale, oppure la disinvoltura con la quale quelle stesse leggi di ispirazione religiosa vengono manipolate dagli uomini che ne dovrebbero essere garanti per finire trasformate in armi da brandire contro i più deboli e contro le donne?

La “zinā” (che, malgrado la pratica comune, non è corretto tradurre “adulterio”, in quanto vengono considerati illeciti tutti i rapporti intimi che intercorrono fra due persone non legate da vincolo matrimoniale, non solo quelli extraconiugali) è uno dei cinque reati[1] ai quali vengono applicate le cosiddette pene “hadd”, desunte dal Corano (anche se in nessuna pagine del libro sacro si parla di lapidazione o altra pena simile) e dunque considerate immodificabili perché parola esplicita di Dio.

Simili pene, codificate più di mille anni fa, quando ancora la cruda “legge del taglione” veniva considerata prassi ordinaria, contemplano conseguenze gravissime per chi vi è condannato, ma al tempo stesso prevedono un meccanismo probatorio così complicato da renderne di fatto impossibile l’applicazione.

Ad esempio, in base al diritto classico per il reato di zinā l’imputato rischia la fustigazione se non è sposato e la lapidazione se invece lo è, tuttavia, affinché sia provata la sua colpevolezza sono necessari ben quattro testimoni oculari (devono aver assistito di persona all’atto!) di sesso maschile, adulti, sani di mente e moralmente integri ai quali viene richiesto di fornire più volte e separatamente deposizioni dettagliatissime, concordanti tra loro. Anche in caso di accertata “colpevolezza” se l’imputato dimostra di aver “peccato” in buona fede, appellandosi ad attenuanti come l’ errore di persona dovuto magari al buio o ad un attacco di sonnambulismo, non sarà punito.

Insomma: non sorprende che molti giuristi iraniani concordino sulla impossibilità pressoché totale di comminare la pena di lapidazione in base alle condizioni imposte dal diritto (in arabo “fiqh”), il che ha agevolato l’imposizione nel paese di moratorie sulla pratica, nel 2002 e nel 2008, purtroppo non sempre rispettate.

Allora perché la lapidazione continua ad esistere, non solo in Iran ma anche in paesi come l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Nigeria, il Pakistan, il Sudan e lo Yemen (senza contare la sua presenza come pratica “non statale” in Somalia)? Perché donne e uomini rischiano tutt’oggi di morire linciati dalla folla in una pubblica piazza? Perché proprio la lapidazione, di cui non si parla affatto nel Corano, è entrata a far parte del sistema legale islamico? Come si può bersagliare di sassi un essere umano inerme a cui viene impedita la fuga seppellendolo in parte in una buca (gli uomini fino alla vita, le donne fino al petto)?

Forse la risposta a simili domande è sepolta nel mistero che è la natura umana, capace di meraviglie ma anche di atrocità, capace, come in questo caso, di servirsi di leggi e fede per mantenere in vita impunemente una forma di giustizia popolare barbara e vergognosa, già menzionata nella Bibbia, che meriterebbe soltanto d’essere archiviata come una delle pagine più buie della storia.

 


[1] Le pene hadd si applicano a reati quali: l’atto sessuale illecito (zinā), l’assunzione di vino (shurb al-khamr, il reato è esteso per analogia a tutti gli alcolici), il brigantaggio (qat‘ al-tariq), il furto (sariqa), la falsa accusa di atto sessuale illecito (qazf).