Minori al patibolo, tra cronaca e diritti negati

di Monica Scotti

Il mondo è ancora in ansia per la sorte dell’iraniana Sakineh, condannata a morte per adulterio e omicidio, crimini che quasi certamente non ha commesso ma che è stata costretta a confessare in diretta tv. Intanto l’opinione pubblica internazionale si tiene pronta a mobilitarsi ancora, come si era mobilitata in passato, purtroppo invano, anche per un’altra donna connazionale di Sakineh, la pittrice Delara Darabi giustiziata il 1 maggio del 2009 all’età di 23 anni per un crimine che le era stato imputato quando di anni ne aveva solo 17. (Monica Scotti)

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Per salvare il fidanzato si era auto-accusata dell’assassinio della zia, ma la giovane età e la sua innocenza successivamente dichiarata non sono bastate a risparmiarle l’impiccagione il primo maggio del 2009. Era un venerdì, giorno della preghiera collettiva dei musulmani, e né i parenti né il suo avvocato erano stati avvisati di quanto stava per accaderle, in aperto contrasto con quanto la legge iraniana prevede in materia.

Minori al patibolo, orrore che si aggiunge all’orrore e che sembra non aver fine. Malgrado l’uso della pena di morte contro persone che all’epoca dei fatti criminosi hanno meno di 18 anni sia proibito da numerosi trattati internazionali[1], secondo un rapporto dell’ONG Amnesty International dal 1990 al 2007 sono stati giustiziati nel mondo 62 minori, distribuiti in 9 stati: Arabia Saudita (2), Cina (2), Congo (1), Iran (28), Nigeria (1), Pakistan (5), Sudan (2), USA (19), Yemen (2).

In generale risulta che nel 2009 i paesi che ancora mantengono la pena di morte siano 43, molti di questi non applicano i patti ratificati dalla comunità internazionale per la tutela dell’infanzia. Anche se le esecuzioni di minorenni nell’ultimo biennio sono diminuite e sembrano ormai limitarsi al solo Iran, l’abolizione di questa pratica indegna può dirsi lontana: nel paese sorto dalle ceneri della Persia, stando a quanto reso pubblico da Amnesty International, sono stati giustiziati almeno 13 minorenni nel 2008, mentre il bilancio degli uccisi del 2009 sarebbe di 5.

Insomma la mano del boia non risparmia gli adolescenti, che spesso provengono da realtà sociali molto degradate, sono dipendenti da droghe e alcool, oppure sono affetti da disturbi mentali e non dispongono di risorse per affidarsi ad avvocati esperti. Se fino a qualche anno fa ad avere la giovane vita stroncata davanti a un plotone di esecuzione erano anche ragazzini “occidentali” (l’ultima esecuzione negli Stati Uniti, infatti, risale appena al 2003) oggi la pena di morte ai minori sembra essere diventata, dunque, una prerogativa dell’Iran, spesso identificato da un occhio occidentale inesperto con l’intero Islām.

Ma l’equazione “musulmano = assassino di bambini” non regge.                                           

Che l’Iran, o meglio la Repubblica Islamica dell'Iran, sia un paese tenacemente ancorato alla religione di Maometto è risaputo; che la maggioranza della popolazione sia di fede sciita e appartenga dunque al ramo minoritario della grande Umma (ovvero “comunità dei musulmani”) divisa in sciiti e sunniti è già meno noto, quello che sul serio non si sa è che malgrado nella sharī‘a siano contemplate pene corporali molto gravi, compresa l’uccisione del reo confesso, ciò non è applicabile in caso di minori.

Come se non bastasse spesso si ignora l’esistenza di clausole “esimenti”, cioè di espedienti che permettono ai colpevoli di evitare di affrontare le conseguenze più gravi di un atto criminoso. Una delle principali esimenti è proprio la presenza in un gruppo di individui che delinquono di persone non giuridicamente capaci, ad esempio ritardati mentali e, per l’appunto, minori. Insomma se in un gruppo di ladri c’è un minorenne, il famoso e barbaro taglio dell’arto non si pratica.

Perché allora ancora oggi ragazzini vengono giustiziati e mutilati per i loro crimini, più o meno gravi?

Il bandolo della matassa sta tutto nell’accezione data al termine “minore”.

Se in occidente il raggiungimento della piena “maturità” giuridica è fissato a più o meno intorno ai 18 anni, secondo la concezione semitica che è alla base del diritto di matrice islamica l’ingresso nell’età adulta di ogni individuo è marcato dall’avvento dei primi segni dello sviluppo sessuale e, quindi, dalla pubertà.  

In ambito sciita e secondo il diritto classico, infatti, la donna diventa maggiorenne prima, col menarca,verso i 9 anni, mentre per i maschi la soglia dell’acquisizione della piena responsabilità civile e penale sono i 15 anni.

I sunniti, d’altro canto, seguivano direttive in materia che cambiano a seconda delle differenti scuole giuridiche (le principali sono la hanafita, la malikita, la shafiita e la hanbalita) ma che si discostano di poco da quelle appena esposte, limitandosi a posporre di qualche anno il limite dell’età adulta per entrambi i sessi.

Ecco il problema di fondo: si diventava adulti quando si è ancora bambini, il che spiega perché quelli che ai nostri occhi sono minorenni agli occhi di chi guarda al “passato” sono, invece, adulti legalmente perseguibili.

Parlare di “passato” è lecito perché gran parte dei paesi a maggioranza musulmana si sono oggigiorno adeguati al trend della normativa internazionale in materia di tutela dei diritti dei minori e hanno fissato limiti più alti sia in ambito civile, per quanto riguarda ad esempio la possibilità di contrarre matrimonio, sia in ambito penale.

Già la legge ottomana promulgata nel 1917, infatti, fissava l’età minima per lo sposalizio a 18 anni per l’uomo e a 17 per la donna.

Nella Tunisia odierna, parimenti, per contrarre regolare matrimonio è necessario avere 17 anni per la donna e 20 anni per l'uomo, pena il pagamento di un’ammenda pecuniaria o addirittura il carcere.

E’ evidente, quindi, che il vincolo della tradizione è stato nella maggior parte dei casi “aggirato” in virtù di un adeguamento necessario all’evoluzione dei costumi e delle dinamiche proprie del tessuto sociale in occidente così come in oriente, e che questo costituisce una grande opportunità per il rafforzamento delle tutele garantite all’infanzia.

Resta il quesito sul perché in Iran si giustiziano ancora i minori, quando basterebbe poco per graziare quei ragazzini, senza bisogno di fare riferimento a principi estranei alla fede ma proprio grazie alle elaborazioni dei giurisperiti di epoca classica e a quanto stabilisce il Corano, che per primo offrì protezione alle categorie più vulnerabili della società, ai giovani, agli orfani, alle donne e ai bambini. Come dimenticare che lo stesso Libro sacro dell’Islām vieta barbare pratiche un tempo diffusissime come l’infanticidio[2] e invoca più volte al rispetto per la vita?

Se in Europa questo è poco noto, forse proprio chi è al potere in Iran l’ha dimenticato.

(foto: Save Delara.com)

 



[1] E’ opportuno ricordare:

-          il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (art. 6, punto5) che recita: “Una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni ...”;

-          la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia (art. 37, punto a) che recita: “... Né la pena capitale né l’imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretate per reati commessi da persone di età inferiore a 18 anni.”;

-          la Convenzione Americana sui Diritti Umani (art. 4, punto5) che recita: “Una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi da persone che avevano meno di 18 anni al momento del crimine...”.

Il divieto non intende minimizzare il crimine commesso, ma esprime il riconoscimento che i minori, in quanto individui in crescita e con una personalità in evoluzione, più facilmente di un adulto hanno la capacità di riabilitarsi e di reinserirsi nella società una volta scontata la pena.

[2] Corano, Sura XVI, 58-59.{jcomments on}