L’onomastica araba: specchio antico di un dinamismo “giovane”

di Monica Scotti

“Come ti chiami?” E’ probabilmente la domanda più formulata al mondo, il primo passo verso un’amicizia, un confronto, un incontro. Il nome è secondo alcune culture tra cui quella semitica, un elemento estremamente importante nella vita delle persone, tanto importante da poter condizionare il destino di chi lo porta e, quasi come l’equivalente di una formula magica da fiaba, conferire misteriosi poteri di controllo a chi lo conosce. (Monica Scotti)

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Ancora oggi, in maniera forse diversa rispetto al passato, quella di scegliere il nome adatto al proprio bambino è una delle prime preoccupazioni dei neo-genitori e anche i ragazzi, avvezzi alle possibilità che offrono le nuove tecnologie, possono concedersi il piacere di scegliersi un secondo nome carico di simbologia, il cosiddetto nickname da usare in rete e con cui farsi conoscere sui social network.

L’onomastica ha certamente subito grosse evoluzioni nel corso dei secoli e i popoli hanno adottato strategie diverse per raggiungere lo scopo comune di distinguere tra loro le persone, magari associando loro formule benaugurali derivate dalla religione o evidenziando il luogo d’origine, il mestiere, le doti fisiche e morali di particolari individui. Ecco nascere il cognome, il nome, il soprannome già ai tempi dell’Impero Romano.

Nella cultura araba l’onomastica si è evoluta in base alle caratteristiche proprie dell’ambiente semitico, dando vita a un sistema che a occhi occidentali può sembrare estremamente complicato.

I nomi con cui personaggi storici, intellettuali, artisti musulmani e non sono conosciuti per intero contano una serie di elementi che li rendono particolarmente “prolissi”, soprattutto quando, in caso di omonimia, per distinguere due persone si arriva a inserire nel nominativo una sorta di mini “genealogia”.

Gli elementi in questione in ordine di “comparsa” sono: la kunya, cioè l’epiteto di rispetto derivato dal nome della progenie (di solito il primo figlio maschio) in base al quale un individuo è conosciuto per essere “il padre” (abū) o “la madre” (umm) di qualcun altro; l’ism, ovvero il nome proprio, come per esempio ‘Alī, Muḥammad e quelle espressioni che iniziano con la parola ‘abd (letteralmente “servo”) seguita da uno dei tanti appellativi con cui ci si riferisce alla divinità (tra i nomi più comuni ci sono ad esempio ‘Abd Allāh, pronunciato anche Abdullà che significa “servo di Dio”); il nasab o patronimico, derivato dal nome del padre e introdotto dalla parola ibn (figlio) o bint (figlia), grazie al quale si può procedere a ritroso nel tempo fino a elencare diverse generazioni in segno di rispetto; la nisba, anche detto “nome di provenienza”, un aggettivo terminante in ī che chiarisce le origini geografiche della persona; chiude il laqab, soprannome o titolo onorifico, che di solito evidenzia difetti fisici o si ispira alle professioni svolte nella vita. Tra i soprannomi famosi (spesso pseudonimi di guerra) di personaggi dell’età contemporanea c’è ad esempio quello di Yāsser ʿArafāt, leader fino alla morte dell'Autorità Nazionale Palestinese, conosciuto col nome di Abū ʿAmmār, traducibile come “Il padre di ‘Ammār/costruttore”.

E’ interessante notare come in fondo una persona avesse la possibilità di acquisire sempre nuovi “elementi” del nome a seconda di come progrediva la sua vita. D’altronde l’uomo non è un’entità statica ma si evolve e le scelte che compie ne rispecchiano l’identità, questo le società semitiche sembravano averlo ben chiaro.

Col tempo le comunità, sia in Oriente sia in Occidente, hanno dovuto sacrificare sempre più il dinamismo dei nomi in favore di una tendenza alla staticità che favorisca il riconoscimento immediato degli individui, tuttavia quello che avviene grazie alle nuove tecnologie e tra i giovani potrebbe col tempo restituire la possibilità alle persone di reinventarsi, almeno virtualmente.{jcomments on}