Per i giovani nuove lauree in “disillusione”. Cultura = disoccupazione

di Alessandra Campanari

“La cultura non è un lusso, è una necessità” scrive lo scrittore cinese Gao Xingjian ne “La montagna dell'anima”, 1989. In Italia no, non più. O meglio la cultura rimane una necessità e spesso, un lusso, ma i giovani italiani, ad oggi, considerano sempre meno seducente l’istruzione universitaria e questo perché non si ha più fiducia nell’importanza di investire su se stessi e a pagarne le conseguenze sarà la stessa nazione. (Alessandra Campanari)

laurea Secondo i dati emersi dall’indagine di Eurobarometro (il servizio della Commissione Europea che analizza le tendenze dell’opinione pubblica in tutti gli stati membri) i ragazzi italiani sono quelli che in Europa, tra i loro coetanei, considerano sempre meno interessante e vantaggiosa l'istruzione universitaria. Questi giovani di età compresa tra i 15 e i 35 anni rappresentano il sintomo di una generazione di disillusi, dove la formazione culturale viene letta come una garanzia a breve termine, incapace di fornire delle alternative ad un sistema sociale, economico, culturale, che guarda al mero profitto in termini di costi e guadagni, relegando la cultura ad appendice dello sviluppo e non così necessaria da considerarsi un buon investimento.

I giovani italiani hanno perso la fiducia nell’investire se stessi perché lo stesso sistema sociale ha perso di vista il valore della cultura come fonte di conoscenza, sviluppo, virtù. I giovani, oggi, abbandonano gli studi e scelgono una laurea in disillusione perché “tanto studiare non serve a nulla”. Nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione nel primo anno dopo la laurea, d’altra parte, è aumentato dal 15 al 16%. Senza contare che il mito della laurea che garantisce un posto fisso appena terminati gli studi è ormai diventato una chimera.

I primi scetticismi nascono dalla possibilità, ormai sempre più limitata, di trovare un impiego coerente al proprio percorso di studi. I timori legati all’occupazione influiscono infatti profondamente sulle scelte formative dei nostri ragazzi. Questa nuova forma mentis generazionale nasce, allora, non solo da un’analisi oggettiva del sistema socio-economico del nostro paese, ma dalla mancanza di attività di orientamento mirate che stimolino i ragazzi a proseguire la propria formazione, limitando le paure per un futuro che appare sempre più privo di colori e contribuendo ad accrescere l’imperativo categorico secondo cui il valore dell’istruzione resta indiscusso sia nella sua implicazione economica e di sviluppo sociale, sia in quella culturale ed educativa. Rinunciare ad un investimento sulla propria persona significa limitarsi non solo come singoli ma come nazione.

“Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza” scriveva Dante Alighieri. La conoscenza intesa come educazione allo sviluppo, come progresso, dovrebbe essere la spinta propulsiva delle nuove generazioni volte alla costruzione del loro futuro. Eppure, il quadro che emerge dal calo di iscrizioni universitarie è apocalittico. È il segno di una generazione di disillusi che hanno perso il senso della direzione perché la meta viene spesso negata; ragazzi che non hanno più il coraggio di guardare avanti perché, quello che si vede, fa sempre più paura.

In un momento storico in cui essere competitivi al livello internazionale significa investire sulla formazione dei propri cittadini e sulla loro cultura, l’Italia si trova ancora in uno stato di limbo, in bilico tra la volontà di sviluppo e l’ignoranza nel credere che ciò non debba implicare una riqualifica della forza lavoro da un punto di vista culturale, scientifico, tecnologico e sociale. È ora di iniziare a dare valore al nostro futuro. Quando si inizia? Noi ci siamo pronti già da un pò.