Nel 19° anniversario della sua morte Giovanni Falcone continua a vivere

di Francesco Fulcoli

All’altezza di Capaci il tempo si è fermato, anticipando destini scomodi. Purtroppo però L’Italia di oggi non è diversa da quella di ieri. (Francesco Fulcoli)

falcone Il 23 maggio 1992 era una giornata calda, si correva lungo l’A29 che dall’aeroporto di Punta Raisi porta alla città di Palermo, una giornata tranquilla, addosso il solito peso che rende schiavi gli eroi, ma un sorriso c’era sempre per smorzare la tensione. Giovanni e Francesca alternavano momenti di silenzio a piccole domande a cui a volte solo gli occhi davano risposta. 

Un déjà vu… Il jet di servizio partito dall'aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva in Sicilia dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendono tre Fiat Croma blindate, con un gruppo di scorta sotto il comando dell'allora capo della squadra mobile di Palermo, Armando la Barbera.

Appena sceso dall'aereo, Falcone si sistema alla guida della Croma bianca, ed accanto prende posto la moglie Francesca, mentre l'autista, Giuseppe Costanza va ad occupare il sedile posteriore. Nella Croma marrone, che va alla testa del corteo, c'è alla guida Vito Schifani, con accanto l'agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra.

I particolari sull'arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo, ma qualcuno tradì. Le auto lasciano l'aeroporto imboccando l'autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Alle ore 17:58, presso il Km.5 della A29, una carica di cinque quintali di Tritolo posizionata in una galleria scavata sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina.

Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in anticipo, sicché l'esplosione investe in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia.

La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Rimangono feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un'altra ventina di persone che al momento dell'attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell'eccidio. All’altezza di Capaci il tempo si ferma, anticipando destini scomodi, finali di storie ruvide.

Trovano la morte Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. Questa è la storia degli ultimi attimi di vita di un uomo che tanto aveva dato all’Italia ma che dall’Italia fu abbandonato. Degli esecutori, dei cinque mafiosi che organizzarono e gestirono l’attacco, si sanno nomi e cognomi, ma degli intrecci politici che portano ai mandanti, nessuna traccia, solo insabbiamenti.

Lo Stato marcio quanto la mafia. Cosa sia cambiato non si sa. Oggi, dopo 19 anni tutti lo ricordano e poi come d’incanto viene riposto. Questa è l’Italia che ci hanno consegnato. L’Italia dove è meglio seppellirli i problemi che risolverli. Quando si parla di lotte tutti d’accordo, quando si tratta di combattere li vedi tutti indietreggiare e sparire nella nebbia dell’indifferenza. Tanto non è affar nostro, stiamone fuori, se la vedano loro, omertà e silenzio poi!

Questa è l’Italia, dove gli arresti sono telecomandati e il nostro beneamato esercito viene utilizzato per raccogliere la spazzatura invece che impiegato per fa rispettare la legge a Casal di Principe . I paradossi sono tanti. Un Italia dove le pene per l’evasione fiscale sono quasi pari a quelle per omicidio. Un Italia fatta di italiani che a testa bassa pagano e mantengono gli sfarzi di uno stato a cui poco interessa se non si arriva a fine mese. Un Italia dove la magistratura indaga su ciò che gli conviene affossando oggi come allora chi la giustizia la vuole fatta bene.

Un Italia dove Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ormai figure coperte dal sudario della retorica di Stato. Non c’è quasi mai, nel frastuono dell’anniversario, una riflessione lucida sui loro tempi. Tanto ormai abbiamo gli eroi non più gli uomini. Un ipocrisia che parte dal rapporto fra tra politica, consenso e magistratura. Negare ai giudici Falcone e Borsellino, un racconto finalmente leale e vero dei loro anni, delle difficoltà e delle amarezze è davvero l’ultima offesa a due magistrati che di stimmate ne subirono fin troppe, finanche dai loro colleghi. 

Una vittoria della Mafia che allora come oggi continua a vincere, ogni anno, la sua partita. Ma una cosa è certa, a dispetto di uno Stato assente, certi morti, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno un respiro più forte di taluni vivi.