“Gli studenti sono il motore dell’innovazione”. Intervista a Mario Morcellini, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma

di Sara Pulvirenti

Ci sono interviste di tanti tipi: quelle noiose e quelle avvincenti e poi ci sono quelle speciali. A quanti di voi è capitato di intervistare il professore con il quale anni prima avete discusso la tesi? Bè, sembra che la cosa non sia poi così rara, visto che a me è successo proprio durante la giornata di presentazione della ricerca “Cittadini 2.0. Il vissuto partecipativo dei giovani”, organizzata da Amesci. (Sara Pulvirenti)

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L’incontro con il Professore Mario Morcellini, preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma oltre che presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi di Scienze della Comunicazione, inizia in modo naturale, quasi come se la vecchia soggezione, tipica del rapporto tra professore e studente, fosse definitivamente scomparsa. E’ stata proprio questa considerazione a fare decollare la nostra chiacchierata. 

Professore per la prima volta posso dire di essere io a farLe delle domande, quasi a conferma di quanto ha scritto in un Suo recente articolo. Lì spiegava come l’adulto, da sempre soggetto privilegiato del sapere sia costretto ad arretrare di fronte ai nuovi bisogni espressi dai giovani. Quanto questa “rivoluzione” è attribuibile al web?

Sicuramente il processo è stato accelerato dal web ma non è stato questo l’unico fattore scatenante. All’università ad esempio il divario si sente in modo meno eclatante, visto che il dialogo è quasi tra pari. A scuola ed in famiglia, invece, si è creato un vero e proprio scollamento: genitori e docenti sono letteralmente disorientati dalla perdita di autorità ed autorevolezza. Infatti non vengono più riconosciuti né si riconoscono come depositari di quel sapere che, per lungo tempo, è stato sinonimo di potere. In poche parole, non è più vero che l’alunno sia sempre quello che non sa: anzi spesso è il ragazzo che corre più veloce dell’insegnante. 

Nel titolo della ricerca si parla di “vissuto partecipativo dei giovani”, due termini quasi antitetici se rapportati al mondo virtuale di Internet ed alla vita reale di tutti i giorni. Ci dica qualcosa in più?
In realtà il vissuto dei giovani non è partecipativo. Mai come oggi i giovani pensano che la partecipazione sia o un peso o comunque non un valore. Diciamo che questo è un problema che si sviluppa su diversi livelli: in parte è dovuto ad una mancata trasmissione degli adulti della scintilla della partecipazione, dall’altro, invece, ad una differenza linguistica ed espressiva che spinge i ragazzi a considerare la partecipazione una “palla” tipica degli adulti e quindi per questo criticabile. Da qui l’esperimento di Cittadini 2.0: offrire un nuovo linguaggio, tipicamente giovanile, per superare la diffidenza di una relazione sociale attribuita dagli stessi giovani esclusivamente al mondo degli adulti. 

cittadini_2_0_eventoIl digitale, quindi, diventa l’ambiente dove potere superare questa “diffidenza”. Sembra buffo però pensare che l’etimologia del termine sia riferibile alle dita e quindi ad un lavoro manuale, nonostante i prodotti generati spessi siano privi di materia tangibile.
Potremmo parlare di una partecipazione per polpastrelli! (ride). In realtà, a parte gli scherzi, nella percezione del corpo i polpastrelli e le mani sono uno degli arti più comunicativi che esiste. Basta pensare alla forza dello stringersi le mani tra amanti: non c’è un gesto più nobile ed universalistico delle mani congiunte e molti riti religiosi lo confermano. Diciamo quindi che la rinascita della partecipazione non è detto che non cominci proprio dalle mani. Al momento, infatti, il livello di partecipazione è così scadente che qualsiasi esperimento può funzionare. 

Ritornando alla ricerca, i dati parlano comunque di un mondo giovanile attivo e desideroso di darsi da fare e comunque sia padrone della tecnologia web. Come docente ha la stessa percezione?
Appena arrivati all’università la realtà è disuguale con isole fortissime di attrattività per le tecnologie. Quando però i ragazzi escono dal mondo accademico, il livello è molto superiore a quello medio della società italiana. Così tanto che la politica è “incazzata” con i laureati in scienze della comunicazione: come si può criticare un corso di laurea che non produce posti di lavoro, quando questa prerogativa spetterebbe proprio al ruolo istituzionale dei politici? 

Nella campagna di Amesci, si parla di “giovani che costruiscono il cambiamento”. Lei in un suo articolo su ComunicLab.it spiegava come gli “studenti sono motore di innovazione”. Queste affermazioni come possono conciliarsi con il precariato e le problematiche legate all’accesso al mondo del lavoro?
In effetti è curioso domandarsi come mai in un contesto dove ci siano tanti presupposti per il conflitto, ci sia così poco conflitto. Sembra che la frustrazione prevalga sulla partecipazione. Probabilmente buona parte delle risorse che prima si impiegavano in politica, sono sequestrate e neutralizzate dall’eccesso delle tecnologie. Forse la vita contemplativa è così seduttiva da sedare un po’ troppo la propensione all’azione. 

Infine una piccola chiosa provocatoria. Visto che è risaputo che quando un fenomeno comincia ad essere studiato e monitorato perde di slancio, quale pensa sarà il segno che Facebook lascerà nell’industria culturale?
A prima vista sembra che sia una tecnologia molto appagante, personalmente però vedo dei limiti evidenti. Su tutti la retorica che gira attorno a Facebook: com’è possibile pensare di essere amici di 600 persone? Riscrivere la retorica con cui Facebook si presenta è il miglior passo per dargli ancora un futuro.