Libri. Le mie prigioni, Silvio Pellico mostra alla letteratura cos’è la resistenza

di Vinicio Marchetti

Delle tante parole spese in onore dell’unita d’Italia, le più sofferte e coraggiose ricevono il loro giusto tributo. (Vinicio Marchetti)

Le-mie-prigioni Vi siete mai chiesti cosa sia realmente la nobiltà d’animo? Vi siete mai domandati se i veri eroi esitano, oppure facciano parte di un mondo immaginario fatto di fumetti e celluloide?

Silvio Pellico è stato un uomo nobile e valoroso. Un uomo che non ha decantato il desiderio di sacrificare la propria vita soltanto in virtù degli altisonanti proclami. La sua opera più celebre, Le mie prigioni, non è altro che una raccolta di memorie che l’autore scrisse per 10 lunghi anni dal 1820 al 1830 durante la il suo periodo di detenzione; prima nel galere del veneziano carcere dei Piombi e, dopo, a Brno, nel carcere di Spielberg.

Appare quasi tragico immaginare quanto avrebbe perso la nostra letteratura se l’editore Bocca, con il fondamentale ausilio del ministro Barbaroux, nel novembre del 1932, non fosse riuscito a pubblicare l’opera sfuggendo al feroce veto della censura.

«Non ne soglio prendere, ma non vo' ricusare le vostre grazie. Quanto alla vostra osservazione, scusatemi, non è da quel sapiente che sembrate. Se stamane non ho più faccia da basilisco, non potrebb'egli essere che il mutamento fosse prova d'insensatezza, di facilità a illudermi, a sognar prossima la mia libertà?»
«Ne dubiterei, signore, s'ella fosse in prigione per altri motivi; ma per queste cose di stato, al giorno d'oggi, non è possibile di credere che finiscano così su due piedi. Ed ella non è siffattamente gonzo da immaginarselo. Perdoni sa: vuole un'altra presa?»
«Date qua. Ma come si può avere una faccia così allegra, come avete, vivendo sempre fra disgraziati?»
«Crederà che sia per indifferenza sui dolori altrui: non lo so nemmeno positivamente io, a dir vero; ma l'assicuro che spesse volte il veder piangere mi fa male. E talora fingo d'essere allegro affinché i poveri prigionieri sorridano anch'essi».

Versi sublimi, bonariamente invadenti, scovano negli anfratti dimenticati dell’animo alla ricerca di ciò che, una volta, rispondeva al nome di patriottismo. Un termine quasi fuori luogo guardando, ormai, ciò che resta del nostro paese.