Scompare Antonio Borrelli: maestro e designer che lavorava l'oro e l'argento

di Katia Tulipano

Ieri 11 febbraio è venuto a mancare nella sua casa napoletana circondato dalla sua famiglia il Maestro Antonio Borrelli. (Katia Tulipano)

Maestro_borrelli ServizioCivileMagazine vuole ricordarlo con le parole di Mario Franco che qualche tempo fa sul suo blog “I volti di Napoli,” su La Repubblica.it, ha ripercorso le tappe fondamentali della vita e del percorso artistico del Maestro Borrelli.

“Scultore di astratte forme e gioielli raffinati ha attraversato il Novecento dalla bottega artigiana alla cattedra dell’Accademia fumando sigarette e bevendo caffè fino all’alba. Il rapporto con gli allievi è uno dei momenti più vivificanti, è scambievole. Quando si può dire ‘perdo qualcosa perdendo gli allievì vuol dire che l’insegnamento funziona
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cultore di astratte forme imponenti o designer di piccoli, raffinati gioielli dai mobili meccanismi ad incastro, Antonio Borrelli ha costruito la sua poetica nell’accezione del “saper fare”, in modo tale che mai l’ispirazione o la sensibilità prendessero il sopravvento sull’abilità.
Il suo passare dalle megastrutture monumentali alle microstrutture dell’oggetto d’uso o del gioiello è una particolarità unica nell’arte del secolo passato, il Novecento. Per quanto sia per sua natura sfuggente come tutte le definizioni, il termine di artista micromega può descrivere la ragion d’essere e il travagliato percorso di Antonio Borrelli, che si è posto il problema di una compiutezza formale oltre le modalità di impiego dell’arte plastica e dell’oggetto ornamentale: “Lavorando l’argento, l’oro e qualche volta il platino – racconta – ho acquisito grande padronanza. Partendo dalla forma di alcuni gioielli ho ricavato sculture anche di sei metri, e viceversa”.
 

Nato nel 1928, Borrelli entra giovanissimo in una bottega d’orafo. Pensando al gioiello, all’ornamento femminile, è stato poi in grado di “pensare in grande”, senza difficoltà: “È importante l’apprendimento di certe tecniche e percorsi, che sono anche mentali – chiarisce lo scultore -, tipico del giovane che una volta frequentava la bottega orafa, come avveniva nel Rinascimento, e dopo faceva anche lo scultore. L’artista modellava l’opera e la trasportava fino alla fusione e alla cesellatura, cioè faceva tutto il cammino, mentre ora si è tutto frammentato”.
La sua storia artistica è stata segnata da un’ansia intrinsecamente progettuale in grado di suggerire l’aspirazione all’armonia segreta delle cose, nella loro universale unicità. Questa sorta di metafisica panteista, secondo la quale ogni opera umana testimonia un ordine superiore, è stata interpretata come mistica “orientale”.

Il termine fu usato per la prima volta da Paolo Ricci, presentando in mostra il lavoro di Antonio Borrelli di ritorno dalla Cina.
“In realtà il mio viaggio a Hong Kong avvenne quasi per caso – chiarisce l’artista -. Da ragazzo, per sbarcare il lunario mi ero messo a fare le “fantasie” per i guanti. Il mio datore di lavoro, un ebreo australiano di origine ungherese, si era trovato così bene con me, che faceva di tutto per non perdermi. Allora, Napoli era una piazza famosa in tutto il mondo per la manifattura dei guanti e molti industriali cominciarono a corteggiarmi per farmi passare con loro. Il datore di lavoro australiano se ne accorse e, per allontanarmi dalle tentazioni di cambiare laboratorio, mi propose di andare a Hong Kong, dove, proprio in quella stagione, stava per aprire una fabbrica di guanti. Io ero molto molto giovane e l’idea di un’avventura in un paese così lontano mi entusiasmò non poco. E in poco tempo avemmo grande successo, la fabbrica produceva a pieno ritmo e le commesse aumentavano. Allora il mio capo ebbe l’idea di raddoppiare le unità lavorative della fabbrica, soppalcandola: “tanto i cinesi sono piccoli”, sosteneva. Io rimasi veramente indignato e decisi di andarmene. Cosa è rimasto nei miei lavori dell’esperienza ad Hong Kong? Qualcosa nel mio gusto per il designer e una certa qualità che potremmo chiamare pittorica. Ho praticato gli smalti a fuoco, immediatamente dopo il ritorno dalla Cina, che finora non ho mai esposto”.

Di ritorno a Napoli, Antonio Borrelli completa gli studi presso l’Istituto d’Arte Palizzi e quasi subito riceve un incarico di insegnamento nel Laboratorio di Oreficeria e Metalli.
“Per me fu la realizzazione di un sogno”, dice lo scultore, per il quale l’insegnamento, la formazione dei giovani, è sempre stata vissuta con passione. Ha lasciato nei suoi allievi un ricordo profondo; con molti mantiene ancora un rapporto stretto d’amicizia. “È importante avere un bel rapporto con gli studenti, trasmettere competenza tecnica e amore per la ricerca – spiega – ed é fondamentale il piacere di stare insieme, perché non è facile lavorare notte e giorno. Quando, infatti, per la fusione accendi il forno, devi seguire tutto il percorso per arrivare dalla cera alla forma. Il forno resta acceso tutta la notte e ci vuole chi si cura del fuoco: se non c’è passione e piacere non c’è neanche il risultato. Ricordo alcune nottate passate nel mio studio nella Chiesa della Solitaria, sconsacrata. Fumando sigarette e bevendo caffè, si discuteva d’arte e di politica e si finiva col fare l’alba”.

Nel 1977 Borrelli lascia l’Istituto Palizzi ed accetta la Cattedra di Tecniche di fonderia e fusione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. L’Accademia partenopea andava rinnovandosi, introducendo nuovi insegnamenti. Borrelli porta in Accademia le sue competenze e il suo entusiasmo, ritrovando, inoltre, alcuni degli studenti provenienti dal Palizzi.
“Il rapporto con gli allievi è rimasto per me uno dei momenti più vivificanti. Con gli studenti c’è un rapporto scambievole. Quando si può dire “perdo qualcosa perdendo gli allievi” vuol dire che l’insegnamento funziona…”.
Intanto, intorno agli anni sessanta, Antonio Borrelli ha abbandonato quasi del tutto la scultura tradizionale per utilizzare la tecnica della saldatura ossiacetilenica, con il cannello di ossigeno e di acetilene. Con questa tecnica, crea oggetti indecifrabili, residui fantascientifici, scarti di una lontana catastrofe interplanetaria, reperti di una archeologia del futuro, che chiama “Ipotesi Spaziali” o “Relitti Spaziali”.

Erano gli anni della conquista dello spazio, della guerra fredda, della paura dell’atomica. Le modalità espressive si adeguavano a cambiamenti epocali. Ma queste sculture “informali”, nate in uno scenario al limite del disastro, producono nuove consapevolezze tecniche, nuove iconografie simboliche. Il lavoro successivo di Borrelli fissa alcuni stilemi che, affiorati nella sperimentazione ossiacetilenica, diventano una costante nella successiva produzione di opere dove l’infrazione spiazzante, le opposizioni spaziali, la moltiplicazione semantica, sono elementi strutturali che permeano in profondità una concezione moderna del design. Le sue sculture acquistano una metodologia progettuale all’altezza di una nuova contemporaneità.