Lavoro si, ma a menù: arriva la formula flessibile che piace ai giovani

di Anna Laudati

La crisi è passata ma ancora si sente. La disoccupazione non da tregua ai ragazzi. Come correre ai ripari? Ecco la proposta del professor Luciano Pero, docente del Politecnico di Milano: il lavoro a menù. (Monica Scotti)

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La location della proposta è un convegno sulla contrattazione innovativa in tema di orario di lavoro, organizzato a Cerea, in provincia di Varese, dalla Filca (Federazione Italiana Lavoratori Costruzioni e Affini), federazione di categoria della CISL. Lì si è voluta lanciare una provocazione contro chi si oppone all’incremento di assunzione di manodopera straniera ed evidenziare la situazione lavorativa paradossale in cui versa il Sud Italia: “Al Nord non si vogliono lavoratori immigrati in più? L'alternativa ad averne altri 2 milioni nei prossimi 5 anni è dare il part-time di massa generalizzato alle donne e ai giovani del Sud. C’è bisogno del lavoro a menù”- ha argomentato il professor Pero, dimostrando che il fulcro dell’intera analisi è la situazione demografica del nostro paese: è il Mezzogiorno l’area dove si fanno più figli, ovvero dove può attingere chi cerca manodopera.

Tra i candidati migliori? I ragazzi del meridione, che oggi incontrano sempre maggiori difficoltà a districarsi nel mondo del lavoro, e le donne, per cui l’emancipazione resta in alcuni casi un miraggio (in base ad alcuni dati diffusi dall’Ocse, si prevede che nel 2025 la percentuale di donne italiane fra 25 e 54 anni che lavoreranno fuori casa sarà appena il 64,5% del totale. Numeri che assomigliano a quelli di paesi come il Messico, la Turchia e la Corea del Sud!).

Ma non basta, per rilanciare l’economia bisogna anche cambiare modello orario, in quanto quello attualmente vigente (8 ore al giorno, 40 ore settimanali, 4 settimane di ferie all'anno) male si adatta alle mutate esigenze dei lavoratori, soprattutto donne, che incontrano enormi difficoltà nel gestire contemporaneamente la sfera familiare e quella professionale.

Sembra spontaneo guardare al part-time con rinnovata fiducia, ma anche quel modello, perché funzioni, ha bisogno di cambiare: ecco che entra in gioco l’orario “a menù”, ovvero l’orario concordato tra lavoratori, imprese e sindacati, esempio di una flessibilità condivisa e non imposta dall’alto. Come funziona?

L'azienda dichiara il fabbisogno di orario nel trimestre in arrivo e ciascun lavoratore ha la libertà di costruirsi i turni, sulla base di moduli predefiniti e negoziati. Così facendo l’azienda ci guadagna perché vengono ridotti gli sprechi, si migliora la puntualità nelle consegne e nei tempi di produzione, si riscontra una riduzione notevole del fenomeno dell’assenteismo. In aggiunta il lavoratore riscopre l’autonomia e viene maggiormente responsabilizzato per quanto riguarda la gestione dell’impresa.

Che il lavoro a menù funzioni lo dimostrano i numeri relativi all’economia dei paesi del nord Europa, dove viene regolarmente applicato da anni: non accaso gli indici sono in crescita e il livello di soddisfazione dei lavoratori sembra essere superiore.