Giovani che vanno via. L'esodo continua

di Anna Laudati

Inesorabile la fuga delle menti italiane all’estero. Lo confermano i dati diffusi, la scorsa settimana, dall’Anagrafe Italiani residenti all’estero del Ministero dell’Interno, che parlano di 1.174.879 giovani tra i 20-40 anni fuoriusciti dallo Stivale nell’ultimo decennio. Ne parliamo con il dott. Nevio Dubbini, membro dell'Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca italiani. (Ornella Esposito)

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Menti, cervelli, scienziati, talenti. Chiamateli come vi pare, una cosa è certa: dal Belpaese si continua a fuggire oltreoceano o verso altri stati europei in cerca di riconoscimenti e stabilità lavorativa. La “fuga dei cervelli” non è una novità, il termine fu coniato in Gran Bretagna negli anni 60’ e da allora se ne parla con toni sempre più allarmanti, soprattutto nell’ultimo decennio.

L’esodo dei talenti è un fenomeno molto più complesso di quanto non si immagini ascoltando i dibattiti televisivi, soprattutto (ma non solo) per la difficoltà nel definirlo, nello stimarne le dimensioni e nell’identificare la tipologia dei cervelli fuggenti.

Secondo Claudia di Giorgio, giornalista specializzata in cronaca scientifica, ed una recente pubblicazione sull’argomento della Facoltà di Sociologia di Trento a cura di Lorenzo Beltrame, i dati maggiormente attendibili sono quelli forniti dall’Istat e dall’Anagrafe Italiani residenti all’estero (AIRE), questi ultimi fotografano un fenomeno tendente al negativo, soprattutto per la mancata corrispondenza tra la fuoriuscita delle nostre menti e l’ingresso di quelle straniere (brain exchange) che, quando entrerebbero, non hanno alcuna intenzione di metter tende nel nostro paese. Le Regione maggiormente depauperate sono: la Sicilia (con 40.281 giovani), segue la Lombardia (con 32.678 giovani) poi la Calabria (con 31.049).

In Italia il fenomeno del ‘brain drain’, si ripete molto più complesso, è strettamente collegato al mondo della ricerca, infatti, scorazzando su moltissimi forum, anche di autorevoli testate giornalistiche, si capisce che sono quasi tutti ricercatori coloro che decidono di abbandonare l’Italia, e quasi sempre per gli stessi motivi.

Abbiamo intervistato sull’argomento il dott. Nevio Dubbini, responsabile delle politiche per la ricerca dell’ADI, Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca italiani tra le più autorevoli nel settore che, nel 2001, ha promosso la pubblicazione del libro “Cervelli in Fuga”: 

Dott. Dubbini, come sono i livelli della formazione universitaria italiana in confronto ad altri paesi europei e non?
I livelli della formazione universitaria italiana (in media naturalmente) sono notoriamente superiori ai livelli medi esteri, e qualche anno fa lo erano ancora di più. Questo è stato anche uno dei motivi che ha spinto ll’introduzione del 3+2 nei corsi di laurea: i giovani laureati italiani erano troppo bravi rispetto ai loro colleghi esteri. C’è da dire però che a livello pratico – e mi riferisco a quei corsi di laurea che prevedono fasi “pratiche”– l’Italia, a detta di molti, deficita molto. La bravura dei nostri laureati è per la maggior parte teorica.

In Italia il fenomeno del brain drain è così preoccupante come dicono o è soltanto una questione di mancanza di dati precisi e di interpretazione di quelli disponibili?
La cosiddetta fuga dei cervelli è un fenomeno molto preoccupante. I dati non mancano, ma come al solito bisogna vedere da quali prospettive si leggono. La cosa certa è che le Università estere offrono molte più possibilità di carriera, pagano meglio, ed anche a livello di lavori al di fuori dell’ambito accademico la preparazione universitaria specializzata è tenuta parecchio in considerazione. 

Quali sono i settori che soffrono maggiormente della fuga dei talenti e perché?
“A naso” posso risponderti che la fuga dei talenti tocca tutti quei campi dove gli studi non sono correlati all’Italia. Un esperto di italianistica o di beni culturali è più difficile che vada via dall’Italia che un fisico, un ingegnere o un biologo. E di sicuro chi, per lavoro, utilizza apparecchiature sofisticate, spesso è costretto ad andar via proprio per la mancanza di strumenti e strutture all’avanguardia nel nostro Paese. Se dai un’occhiata ai premi nobel italiani capisci subito la situazione: è possibile che la Montalcini o Dulbecco potessero vincere i premi restando in Italia?

Quanti dei nostri cervelli fuggiti all'estero sono rientrati in Italia o pensano di farlo?
Di tanto in tanto si sente di programmi che mirano a far rientrare i “cervelli in fuga”, ma nessuno di questi fnora ha realmente funzionato, sempre perché l’Italia non è attraente dal punto di vista scientifico.

In che modo incide il brain drain sulla nostra economia?
Basterebbe parlare con i nostri colleghi esteri per rispondere a questa domanda. Quando partecipo a delle conferenze internazionali, e racconto ciò che sta succedendo in Italia (mancanza di fondi in primis), i miei colleghi prontamente mi rispondono: “e dove andrete a finire tra 10 anni?” E’ proprio questo il punto, non investire nella ricerca oggi significa non essere competitivi domani, anche, e soprattutto, in tempi di crisi come questo.

Secondo lei, le grandi imprese italiane hanno anche loro delle responsabilità nella fuga dei cervelli?
Sicuramente un problema legato alle imprese in Italia esiste, in quanto spesso si fanno concorrenza a livelli che non riguardano certo la tecnica, il prodotto migliore, e le competenze. La mia opinione personale è che la responsabilità sia della politica perché i permessi, i contratti, i bandi, gli appalti, sono da sempre territorio della politica.

Quali potrebbero essere delle proposte concrete per arginare il fenomeno del brain drain?
Rendere attrattiva l’Italia per i ricercatori esteri e quelli italiani, investire in ricerca, fare in modo che il più bravo guadagni di più e faccia più carriera e il meno bravo ne faccia meno, snellire la burocrazia e  imparare tutti ad usare l’inglese. Il problema però non è cosa fare, ma la volontà di farlo.

Cosa pensa di fare per il tuo futuro formativo e lavorativo?
Q
uasi certamente lascerò l’Università italiana, o in favore di quella estera, o in favore del lavoro nel privato. Per fortuna ho acquisito una serie di competenze che mi fanno ben sperare per il futuro, ma sono sicuro di non voler affrontare 12 anni di contratti a tempo determinato (come prevede la riforma dell’Università), senza avere né la certezza di diventare un accademico, né quella che la mia bravura possa aiutarmi a vincere la competizione. 

Le parole di Nevio Dubbini non sono incoraggianti, così come i delittuosi tagli alla ricerca operati di recente dal nostro Governo. E’ molto difficile per un giovane guardare al futuro senza avvilirsi o decidere di andare via. Per il momento quello che le menti talentuose (e tutti noi) possono e devono fare, è protestare e resistere, resistere, resistere.