L'archeologo Napoletano Doc: Missione TAV, Napoli-Roma

di Anna Laudati

Li immaginiamo mentre avanzano a fatica immersi fino alle ginocchia nella vegetazione pronti a disputarsi con crudeli profanatori di tombe antichissime statuette di misteriose divinità (possibilmente  d’oro e diamanti), coppe in odore di santo Graal e atri reperti dal valore inestimabile…li immaginiamo sempre in cerca di avventure, proprio come Indiana Jones. Invece ..... (di Monica Scotti) fotoferrovia.gif

 In Italia gli archeologi, quelli “veri”, sono costretti a confrontarsi con prove ben più impegnative e “spaventose” del loro alter-ego cinematografico: precariato, de-regolamentazione della loro professione, condizioni di lavoro ai limiti dell’umano, discariche, uranio impoverito e rifiuti tossici. Gli archeologi italiani si formano all’università per oltre 7 anni poi, nella migliore delle ipotesi, si ritrovano catapultati a fare assistenza ad enormi ruspe che compiono lavori per la messa in opera di rotaie, fili elettrici, tubi dell’acqua e fogne. E’ il caso della cosiddetta “archeologia preventiva” cioè quel settore dell’archeologia, recentemente regolamentata da una legge, che si occupa delle ricerche archeologiche che precedono l’apertura dei cantieri delle grandi opere pubbliche (treni alta velocità, linee metropolitane ecc..).

Uno dei cantieri che negli ultimi anni ha dato più lavoro agli archeologi è la TAV, linea alta velocità Roma-Napoli.

Per chi sceglie di lavorare in Italia c’è anche un’altra possibilità, l’archeologia di emergenza: la BOB, Bonifica Ordigni Bellici.

Ecco cosa fa un archeologo: sveglia all’alba o anche prima, in luoghi gelidi d’inverno e roventi d’estate, dove l’unico genere di conforto è di solito il caffè preparato su fornellino a gas da campo da un volenteroso operaio. E quando finalmente si inizia a scavare cosa si riporta alla luce? Cosa si sottrae alle nebbie del passato? Spesso solo enormi discariche abusive e pezzi di amianto.

Gli archeologi impegnati sui cantieri della TAV Roma-Napoli hanno operato in condizioni ambientali e lavorative estreme, tra rifiuti tossici, con turni da 9 a 12 ore al giorno per 5 o 6 giorni a settimana e guadagnando mediamente intorno ai 900 euro al mese; hanno lavorato in strutture di lamina destinate a depositi per i reperti archeologici: strutture prefabbricate in lamiera, prive dei requisiti minimi per un ambiente di lavoro, senza riscaldamento e ventilazione, spesso infestate da topi e zecche. Come se non bastasse nel paese che detiene il primato del maggior numero d’opere d’arte archeologiche la parola “archeologo” per la legge non esiste. Non esiste, infatti, un Albo per questa categoria professionale.

Il “Primo Censimento Nazionale Archeologi” promosso Dall’ANA (Associazione Nazionale Archeologi) sulla situazione della categoria ha evidenziato che l’età media di chi esercita questa professione è 30 anni e che quello dei cosiddetti “archeologi da campo” è un lavoro “di passaggio”. La maggior parte degli archeologi abbandona la professione prima dei 5 anni. l motivi di questa scelta sono la precarietà e l’estrema discontinuità del lavoro. Chi abbandona la professione lo fa  per dedicarsi all’insegnamento.  Chi decide di restare  per vivere è costretto a fare un secondo lavoro. Fra le attività più diffuse: la guida turistica, le lezioni private, ma anche, sorprendentemente, l’attività di cameriere nei bar e nei ristoranti. Altrettanto difficile è la situazione degli archeologi che collaborano con Istituti di Ricerca, Università, Musei ed Enti pubblici, che soffrono una situazione precaria, legata alla cronica penuria di investimenti da parte dello Stato nel settore dei Beni Culturali. E non è finita: gli archeologi, quando si uniscono a missioni di scavo all’estero, devono affrontare un altro nemico terribile, un nemico silenzioso, l’uranio impoverito. Fabio Maniscalco, uno degli archeologi più conosciuti al mondo, ha pagato con la vita il suo amore per il passato. Specialista di tutela e salvaguardia dei beni culturali in aree di crisi  e docente presso l’Università l’Orientale è scomparso nel febbraio del 2008, a soli 43 anni, stroncato da un adenocarcinoma al pancreas, rara ed anomala forma di cancro, causata dall’esposizione a metalli pesanti e uranio impoverito, presumibilmente avvenuta tra il 1995 e il 1998 quando, ufficiale dell’Esercito italiano, l’archeologo napoletano monitorò la situazione del patrimonio culturale della Bosnia e del Kosovo durante il conflitto nei Balcani. Un comitato internazionale di docenti aveva proposto che gli fosse assegnato il premio Nobel per la pace.La sua storia è un monito, racchiude il grido d’amore e di dolore, le speranze e le paure di chi, come lui, ha scelto di fare l’archeologo, più che un semplice lavoro, una missione.